Libri per sovvertire il reale #4

Questo è il quarto post della – disordinatissima – rubrica Libri per sovvertire il reale qui, qui e qui le puntate precedenti – e devo dire che stavolta i due titoli (solo due, 'cidenti alla mia lentezza con la saggistica) presentati non c’entrano davvero niente l’uno con l’altro, se non per quella svolta prospettica che è l’unico parametro con cui scelgo di cosa parlare. Con un carpiato di pigrizia, riprendo pari pari l’introduzione della rubrica così come l’ho pensata nel lontano 2020:

sono giunta alla conclusione che non esista un’opera letteraria che non sia politica – perché l’idea che l’autore ha del mondo è politica e il ritratto che fa della realtà non può prescindere da quell’idea, più o meno consapevolmente. I titoli che vado a presentare partono da un dubbio, dalla volontà di svellere i cortocircuiti interpretativi che come società tendiamo a dare per scontati. Partendo dal momento storico in cui è nato il malinteso interpretativo, ne ribaltano la prospettiva per sviscerarne le conseguenze e stabilire i legami tra causa ed effetto. Insomma, nel mezzo di una partita a scacchi dicono “Fermi tutti, quelle sono le pedine della dama!”. E va da sé, ogni volta che parliamo di lettura del reale e prospettiva siamo piagati dalla visione che abbiamo del mondo; magari gli autori dei titoli non hanno sempre e del tutto ragione, potrebbero anche non essere pedine della dama, magari sono quelle del backgammon, ma hanno sicuramente ragione nel dire che non sono scacchi – che cosa siano, quello bisogna scoprirlo da sé.

ZombieCity – Strategie urbane di sopravvivenza agli zombie e alla crisi climatica a cura di Alessandro Melis (D editore, 2020)

 

 

sovverte il reale utilizzando la figura dello zombie come elemento incontrollabile al quale l’essere umano, come individuo e membro di un gruppo sociale, deve imparare ad adattarsi: il volume contiene i progetti che otto ricercatori e ricercatrici hanno elaborato per rispondere all’ipotetica minaccia del morto vivente, una creatura che comprende solo la propria fame e con la quale è impossibile trattare se non con la fuga e la costruzione, o la ricerca, di un riparo sicuro, cosa che richiede coesione e collaborazione. ZombieCity parla di zombie – come sono nati nell’immaginario collettivo, che cosa simboleggiano – di urbanistica e abitabilità, degli indici che determinano la qualità della vita, di programmi di lotta al degrado che si trasformano in enormi e pericolanti fallimenti, e di come questi fallimenti riescano talvolta a ospitare spazi comuni di riqualificazione spontanea; parla di gentrificazione, della formazione di giganti urbani – come i campi profughi di Amman, in Giordania, che sono diventati una parte povera e integrante della città, gonfiati oltre misura dalle ondate di rifugiati provenienti prima dalla Palestina, e poi dalla Siria e dall’Iraq – e di materiali innovativi che un giorno – si spera – cambieranno il modo che abbiamo di costruire e mantenere in salute gli edifici, come un cemento auto-riparante geneticamente innestato con una muffa. Non riuscirò a spiegarlo meglio di così, per tutta la scuola dell'obbligo nelle materie scientifiche raggiungevo il sei solo se sommavo tutte le discipline.

Credo che il punto più interessante del volume sia l’approccio, che mescola una profonda consapevolezza dell’enorme disastro in cui continuiamo a cacciarci a un sottofondo tutto sommato pratico e possibilista: un “SI. PUÒ. FARE” di proporzioni Brooksiane che non è cieco, quanto determinato a dimostrare che la salvezza non ci è del tutto preclusa, visto che siamo pieni di know how creativo e innovazioni tecnologiche: abbiamo il potere di distruggere gli ecosistemi, così come abbiamo il potere di adattare il nostro stile di vita alle rovine che abbiamo creato – o perfino, dico, perfino di risanare parte di quanto abbiamo devastato.

Perfino. Se ci provassimo davvero.


La violenza e il sacro di Rène Girard (Adelphi, 1992)



sovverte il reale riprendendo e accostando due elementi della vita umana, il sacro e il violento, ridiscutendone il ruolo all'interno della società, togliendo di dosso al lettore quanto credeva di sapere, l'insieme di concetti comodi e semplicistici imparati nella nostra società occidentale e tardo-capitalistica che ci servono a bullarci della nostra Razionalità Superiore e che a pochissimi viene da mettere in dubbio; Girard la prende molto, molto alla lontana, fin da Caino e Abele e dall’omicidio che accomuna molti miti fondativi; affronta il tema del sacrificio rituale, discutendone la funzione pacificatrice all’interno di un gruppo sociale tramite una doppia sostituzione (del gruppo sociale che diventa individuo, della vittima sacrificale che si fa simbolo) attraverso la quale la comunità si auto-racconta; accosta i miti delle società primitive, ne rileva le assonanze, e ne tira fuori delle teorie; rifiutando la concezione dell’atto violento come unicamente disgregante e intrinsecamente malato, riflette sulla violenza nella storia, nella letteratura, nel mito; discute Dioniso come divinità duplice (caritatevole e malvagio) e fondamentale, la concezione di tragedia di Aristotele, la catarsi drammatica. Girard fa lo stesso col sacro e col violento: difende il rito religioso dalle letture superficiali, ne sottolinea la complessità, ne denuncia l’incomprensione semplicistica che spoglia gli antichi sacerdoti del loro ruolo di sapienti e filosofi, riducendoli all’immediatezza dei dogmi.

È un titolo molto diverso da quelli che sono abituata a trattare da queste parti, e che ho trovato molto più scorrevole e comprensibile di quanto avrei creduto – sicuramente più di quanto non sia riuscita a renderlo.

Quello che so con certezza è che la ricerca delle etichette per questo post farà di me una reietta della SEO.