Finalmente è troppo tardi di Miki Fossati - Un'anarchia meravigliosa

Finalmente è troppo tardi di Miki Fossati, edito da Zona 42 in quel del 2020.

Come credevo che fosse: mi aspettavo, vai a sapere perché, non un approccio distopico rispetto alla catastrofe annunciata dal titolo, bensì un approccio ottimista, da solarpunk o hopepunk – dev’essere stato quel “finalmente”, che per me si è tradotto in un “ora che tutto è bruciato, finito, inevitabilmente raso al suolo, possiamo costruire qualcosa di meglio”.

Non ci ho preso neanche alla lontana.

 


Come è effettivamente: Finalmente è troppo tardi è, almeno così mi è parso, un ottimo esempio di auto-narrazione: il protagonista, nonché voce narrante, è uno scrittore appena trasferitosi in un villaggio fuori Londra insieme alla figlia di sette anni – sette? Otto? Nove? Una di quelle età lì. Fa un lavoro misterioso che a che fare con la navigazione e con la programmazione, ma comodamente da casa, per quanto possa considerarsi comoda una casa che viene puntualmente invasa da fantasmi rumorosi, fastidiosi e perlopiù piagnucolanti, nonché privi di un qualsivoglia filtro emotivo.

I fantasmi non sono l’unico elemento misterioso della storia, forse non sono neanche l’elemento più misterioso. C’è un personaggio che il protagonista chiama Dracula e suona il violino, per ragioni tutte sue che vengono svelate a romanzo già avanzato. Ci sono moltissimi ibridi, persone all’apparenza del tutto normali che però al posto delle braccia hanno fortissime chele, e sono gli unici che riescono a chiudere i cancelli delle dighe in caso di alluvione. C’è una donna il cui fiato si spande come una polverina colorata, un computer che continua a modificare il file di testo del romanzo che il protagonista cerca di scrivere. Un morbo bizzarro. Le storie che il protagonista racconta alla figlia, che sono infantili e potentissime. Ci sono cose ancora più bizzarre, ma temo, a scriverle qui senza dare loro un giusto contesto, che il romanzo finisca per risultare una specie di mappazzone dell’assurdo. Non lo è.

Il passato del protagonista, e dunque quello della figlia, emerge per chiedere conto del presente e delle sue fortune, nella forma del diario della madre defunta, di un’assenza evidente, di un rimorso implacabile – anche se è così umano, cercare di placarlo facendo finta di niente, fingere che tutto proceda come deve. Non è un uomo cattivo, tutt’altro. È pavido, questo sì, talvolta anche pigro, capace di pensieri meschini che però non gli impediscono di essere svogliatamente gentile. Ho adorato il modo in cui si sviluppa il rapporto tra padre e figlia, claudicante e per nulla idealizzato, perché i due sono profondamente diversi e caratterialmente opposti – tanto lui esita, quanto lei partirebbe a spaccare il mondo senza neanche infilarsi prima le scarpe.

Il finale del romanzo si incrocia con qualcosa che è nostro, una colpa attuale e collettiva, una macchia che ci macchia tutti indistintamente. Non ne dico altro, ci mancherebbe. Concludo dicendo che sono pienamente d’accordo con quanto riportato sulle alette: è un’opera anarchica e meravigliosa, che è difficile spiegare. Ci ho provato qualche sera fa, a spiegarla al donzello. Gli dicevo quanto è bello che la narrativa italiana sia diventata questo. Di quanto si sia de-incartata, de-incatramata, di quanta voglia ci sia di rivoluzionare, sperimentare, svellere le abitudini e le certezze.

Ho l’impressione che la letteratura italiana non sia mai stata così libera.