La casa dei Gunner di Rebecca Kauffman

 Il primo libro che ho abbrancato quando hanno riaperto gli scaffali delle biblioteche è stato La casa dei Gunner di Rebecca Kauffman – edito da Sur nella traduzione di Alice Casarini. L’avevo adocchiato da quando era uscito, come tutti i volumi della collana Bigsur – una collana che trovo presenti una coerenza profonda, perché finisco per ritrovarci prospettive convergenti, intime e peculiari. La trama è presto detta. Una donna poco sopra i trent’anni si suicida, il gruppo di amici di cui aveva fatto parte durante l’infanzia e per buona parte dell’adolescenza – prima di discostarsene senza una parola né una spiegazione – si riunisce per piangerla e parlare di lei. I Gunners, come si chiamavano tra loro, non si vedono dalla fine delle scuole, sono tutti cambiati, si portano appresso una vita. Fino a quel momento si sono sentiti saltuariamente su una mailing list privata creata appositamente. È una di quelle rimpatriate a cui, credo, tutti pensiamo di tanto in tanto. Che fine ha fatto quella ragazza che ti ha tenuto in vita quando eri in prima superiore? L’amica per cui ti saresti fatta sparare in seconda, che ha lasciato la scuola e non hai più visto? Il gruppo che ti ha fatto da famiglia prima dell’università, quell’amico che ti ha messo in mano la sua vita? Sì, va bene, abbiamo facebook, ma non è la stessa cosa. Lo sappiamo che non è la stessa cosa.

 


Il protagonista è Michael, un uomo schivo e silenzioso, senza amici, l’unico che è rimasto a vivere nella cittadina in cui era cresciuto con gli altri, a parte Sally, la donna che si è uccisa. Ha un gatto che adora, cucina in modo metodico. Non ha mai conosciuto sua madre, col padre ha un rapporto dissestato, perché non sono mai riusciti a capirsi. Da poco ha scoperto che sta diventando cieco, ma non l’ha detto a nessuno. L’idea di rivedere i vecchi amici lo mette a disagio, si sente in difetto per non essersene mai andato come hanno fatto loro. Non sa cosa aspettarsi. Dopo il funerale si sposteranno nella casa di uno di loro, e il giorno dopo se ne torneranno a casa.

Quello che ho adorato in questo romanzo è quell’aspetto cui mi riferivo quando accennavo alla coerenza della collana Bigsur. Ho trovato molto adatto, in un certo senso, che fosse scritto in terza persona e non in prima. Osserviamo prima di tutto Michael, lo conosciamo osservando i suoi gesti, scoprendo ciò a cui tiene, interpretando le sue interpretazioni. Michael è riflessivo, acuto, e in qualche modo vigliacco, inconsapevolmente disonesto. Non perché sia una brutta persona, tutt’altro: è uno di quegli esseri umani che non fanno niente di speciale, eppure migliorano il mondo – almeno, questa è una mia interpretazione personale, immagino che ad altri persone come Michael possano perfino dare fastidio. Ma come tutti, ha sviluppato una sua visione del mondo e degli altri, e tende a sovrapporla alle altre persone. Il modo in cui questo elemento viene gestito è stranamente confortante: Michael uno di noi. Disgraziato come tutti. Il romanzo parte con un suicidio e con l’annuncio dell’avanzare della cecità del protagonista, eppure riscalda così bene.

 


I dialoghi sono qualcosa di speciale. Da tatuarseli addosso. I personaggi vengono fuori nel pieno delle loro personalità, del loro vissuto. È meraviglioso il modo in cui viene elaborata la loro crescita, risultano vividi che dire “realistico” è troppo asettico. Un altro aspetto che ho adorato è il modo in cui la voce narrante si fa gli affaracci suoi: ti dice quello che sta succedendo, dipinge perfettamente le azioni e le reazioni dei personaggi alle parole reciproche, ma non dà indicazioni su chi abbia ragione, o per meglio dire, di chi sia lì in mezzo la bussola morale, chi tra tutti abbia una visione più chiara. Tutti. Nessuno. Ha importanza?

Ultima nota: il personaggio di Alice mi ha messo addosso l’imbarazzo di chi si ritrova sgamato nei suoi peggiori difetti. È stato uno strano specchio, neanche troppo enfatizzato. E insieme ho avuto la sensazione di aver trovato l’alter ego dell’autrice nel romanzo. Un po’ come se ci fossimo urlate BECCATA! tra le righe a vicenda.

Ma qui sono io che sovrappongo arbitrariamente la mia prospettiva all’opera, e come immagino dica Rebecca, di queste sovrapposizioni non c’è da fidarsi.