Paradossalmente
L’amante di Wittgenstein di David Markson – edito in
Italia da Clichy nella traduzione di e uscito negli USA nel lontano
1988
– è un romanzo di cui vorrei parlare dicendone il meno possibile.
Non riguardo alle tematiche, ce n’è da dilungarsi, così come
sulla voce narrante della protagonista – non ho mai sopportato il
flusso di pensiero, eppure eccomi a gradire immensamente un’opera
che è un flusso di pensieri costanti, sconnessi e agganciati sulla
pagina col ricorsivo ritorno all’atto della scrittura. È un
romanzo, insomma, di cui ci sarebbe tantissimo da dire, e vorrei
provare a farlo senza toccarne il fulcro; quello che pensavo,
leggendolo, è che mi sarebbe piaciuto leggerlo senza chiavi
interpretative, per poterlo esperienziare così come l’aveva
pensato l’autore che lo stava scrivendo. Un autore che non voglia
affidarsi all’autopubblicazione non scriverà tenendo presente il
modo in cui il romanzo verrà confezionato per il pubblico, magari si
interrogherà sul modo in cui l’editore sceglierà di confezionarlo
per renderlo appetibile ai lettori, ma nell’atto della scrittura
terrà presente una lettura ideale spoglia di inquadramenti e quarte
di copertina rivelatrici. Almeno, idealmente.
L’amante
di Wittgenstein ha luogo prevalentemente su una spiaggia, dove sta la
casa della protagonista che scrive ossessivamente tutto quello che le
viene in mente. Ma non è un romanzo ambientato sulla spiaggia, che
pure compare quando la protagonista la pensa e la osserva, quanto un
romanzo ambientato nella mente della protagonista, nei ricordi che si
legano lungo il filo dei suoi processi mentali. Kate racconta di sé,
raggruppa ricordi e li affastella sulle pagine così come le vengono
in mente. È una scrittura curiosa, che si interroga sull’atto
stesso e sul rincorrersi degli argomenti che le spuntano in testa. Un
nome richiama un altro nome, evoca fatti e pettegolezzi storici,
sprazzi di vita di personaggi che la protagonista ha studiato o che
in qualche modo le sono rimasti in testa. Era una pittrice, la sua
conoscenza della storia dell’arte ricorre sulla pagina; le
bizzarrie di Van Gogh, le delusioni di Leonardo e dell’Ultima cena,
la follia di Turner. I pensieri vengono riportati con la stessa
libertà con cui le compaiono in testa, e alcune affermazioni vengono
seguite da ripensamenti, l’errore viene ripreso e corretto. Cita
filosofi, scrittori, le loro stranezze. Si chiede se Elena di Troia
avesse un gatto e poi rincorre l’idea di avere un gatto.
È
un romanzo straniante senza distacco o dispersione; il lettore è
stranito nella misura in cui è stranita Kate. E Kate dopotutto
sembra in grado di razionalizzare se stessa e il mondo che la
circonda. Leggerlo mi ha fatto pensare a un romanzo che ho adorato –
anche se, vai a sapere perché, ai tempi non mi andava di
chiacchierarne –, Nessuno scompare davvero di Catherine
Lacey, una delle scrittrici che presento come mie future – e
inconsapevoli – mogli. La protagonista è una donna di ventotto
anni – perché me lo ricordo così chiaramente, che ci metto
mezz’ora a ricordarmi con cosa ho cenato ieri sera? – scappa di
casa e inizia a vagare guidata solo dall’istinto e dai ricordi. Si
lascia sommergere da ferite irrisolte che, ignorate a lungo, stanno
suppurando. La lettura si accompagna a un senso di angoscia mitigato
da una speranza straziante.
La
protagonista di Markson, pur essendo sommamente perduta –
nell’accezione che intende Tolkien quando dice che “not all those
who wander are lost”, ecco, Kate si è proprio persa – resta
caparbiamente ancorata a se stessa. La sua quieta accettazione la
salva, e mantiene la lettura a distanza di sicurezza rispetto al
baratro in cui annegano i personaggi della mia futura moglie –
Catherine Lacey.
Wittgenstein è un elemento importante per una decodifica perfetta del romanzo, ma non è essenziale per comprendere lo svolgersi della trama – che comunque non è così facilmente identificabile. Lo spiega David Foster Wallace nella postfazione, e caso fortuito un mattone che sto leggendo sulla storia delle scienze cognitive. Wittgenstein compare come forma di elucubrazioni, nel rapporto che vede e cerca tra mondo e linguaggio, tra mondo e pensiero, tra raffigurante e raffigurato – e soprattutto, tutto quello che sta nel mezzo.
Sarò sincera, la questione Wittgenstein non l'ho capita del tutto, non ho mai studiato seriamente filosofia e, peccato dei peccati, non mi è mai comparso tra un nome e l'altro in un esame di psicologia, linguistica o semiotica. Mi rileggerò altre tre-quattro volte la parte che gli dedica Gardner in La nuova scienza della mente e prima o poi avrò tutto chiaro.
Voglio crederci.
In
sostanza, caparbiamente, buona lettura.
E
apprezzate il mio impegno nel non nominare il fatto che-