La nostra folle, furiosa città di Guy Gunaratne - Essere ragazzi in un mondo che fa schifo


Prima di iniziare a scrivere di La nostra folle, furiosa città di Guy Gunaratne, uscito a giugno per Fazi nella traduzione di Giacomo Cuva, ho dovuto fare una piccola ricerca riguardo all’evento che ha scatenato la furia londinese cui fa riferimento il titolo, che non può prescindere dal momento storico in cui è prodotto. Con questo romanzo Gunaratne cerca non tanto di spiegare, quanto di raccontare, il rovesciamento di un contesto da pacifico a feroce, il riemergere di una xenofobia che non ha mai lasciato l’Occidente, si è solo rintanata finché non è tornata socialmente accettabile, perché inquadrata in una narrativa che la legittima.

Rischio di partire troppo alla lontana e dilungarmi ben oltre il lecito – che il punto qui è chiacchierare del romanzo, non fare una panoramica di come sta messo il mondo o di quanto gli rimanga da vivere. D’altronde ci sono delle premesse da fare, e cercherò di farle brevemente: dal 2001 l’Occidente non è più stato lo stesso, perché un atto terroristico ci ha permesso di compattarci sotto la minaccia di una guerra santa voluta da persone che odiavano proprio quello che secondo noi ci teneva uniti. I presupposti della nostra risposta bellica, ormai lo sappiamo, erano campati per aria non meno della storia delle Torri Gemelle come inside job, ma le destre xenofobe non hanno mai rinunciato a raccontare delle forze malefiche che tramano dall’Africa al Medio Oriente contro le nostre belle tradizioni in modo da poter mascherare le aggressioni come legittima difesa. Il mondo sa fare schifo. Di brutto.



Lee Rigby è stato assassinato a Londra il 22 maggio del 2013. Aveva venticinque anni, era un militare nei Royal Regiments. Indossava la divisa quando due uomini afrodiscendenti lo hanno aggredito e ucciso per vendicare le vittime musulmane del conflitto in Medio Oriente. Entrambi cresciuti a Londra da famiglie cristiane, si erano convertiti all’Islam per poi radicalizzarsi – o forse è stata la radicalizzazione a portarli alla branca più integralista dell’Islam, per poterci trovare un rifugio ideologico.
Difficile immaginare cosa succederebbe oggi in Italia, se un militare venisse assassinato da un paio di spostati integralisti. Ma non è che in Inghilterra, nel 2013, sia andata poi meglio. Gunaratne racconta la sua Londra, la città che viene contesa ideologicamente nel momento in cui si tracciano linee per determinare di chi sia, chi abbia diritto a starci e secondo quali condizioni. Racconta di un gruppo di ragazzi di seconda generazione, figli della diaspora, che di colpo si scoprono stranieri a casa loro, nel periodo che segue l’omicidio di Lee Rigby, quando i negozi dei quartieri abitati in prevalenza da immigrati vengono presi di mira, e camminare per strada si fa pericoloso, soprattutto visto che da un momento all’altro possono spuntare manifestazioni di suprematisti bianchi che ci tengono a fare di Lee Rigby un loro simbolo, una loro vittima, per giustificare l’orrore che vogliono portare nelle vite altrui.

Mi sto lasciando trasportare. Vediamo.
Guy Gunaratne è nato a Londra nel 1984, figlio di un uomo singalese e di una donna inglese. Ha fatto il giornalista e il documentarista e il suo esordio, La nostra folle, furiosa città, gli è valso premi e menzioni di un certo prestigio, come il Dylan Thomas Prize.
Il romanzo è scritto in prima persona dal punto di vista di diversi personaggi, in qualche modo collegati, in un’alternanza di capitoli. Perlopiù sono adolescenti amici tra loro, che si incontrano al campetto del quartiere per giocare a calcio. Selvon – insopportabile, gesù – è il classico atleta dalla volontà ferrea, muscoli e belle speranze, nero ma borghese, e per lui i pomeriggi con gli amici sono quasi una vacanza dal suo quartiere residenziale – cosa che gentilmente i suoi amici evitano di rinfacciargli. Ardan è un ragazzino esile dalla famiglia disastrata che si porta dietro il cane quando si infila sui tetti per scrivere le sue rime in santa pace. Yusuf va a scuola con loro, ha un fratello maggiore che sta passando un brutto periodo, soprattutto da quando sono rimasti orfani del padre, che era anche l’imam e il padre spirituale della moschea.


Ci sono altri personaggi che gravitano ai lati della vicenda, adulti che prendono in prestito la pagine dei loro figli – almeno, ho avuto questa impressione – per raccontare di come andassero le cose ai loro tempi, metterci di fronte alle brutture che erano per risaltare quelle che sono. Quello li che unisce tutti – fatta eccezione per Caroline che è irlandese, cosa che comunque un tempo aveva tutto un altro peso in Inghilterra – è che sono parte di una minoranza etnica, e a seconda del periodo storico questo fa una certa differenza.



I ragazzi vivono le loro giornate in una simulazione di normalità; gli adulti vanno indietro nel tempo, tornano a quando erano giovani. Tornano agli anni dell’IRA, agli anni che hanno fatto seguito alla seconda guerra mondiale, alle bande di picchiatori fascisti dei Teddy Boys – incidentalmente Gunaratne mi ha fatto un brutto, bruttissimo spoiler su quanto posso lecitamente aspettarmi dalla prossima stagione di Peaky Blinders e sono molto, molto delusa dalla storia.

In La nostra folle, furiosa città le linee narrative si alternano e si intrecciano per raccontare una medesima storia. A volte sembra andare tutto bene, sembra che davvero possiamo stare tranquilli, poi dei balordi ammazzano un ragazzo e all’improvviso uscire di casa fa paura. Gunaratne racconta questa improvvisa fiammata londinese attraverso una manciata di individui ai quali si contrappone la folla incontrollata. La ragione del singolo che si trova davanti la follia della massa.

C’è qualcosa in questo romanzo – che pure mi è piaciuto molto, e che consiglio anche in merito della valenza di testimonianza di una Londra parallela, direi anche di un’Europa parallela, che da bianchi non viviamo – che mi dà un pizzicorino di fastidio, e riconosco che si tratta di un aspetto che dà fastidio a me in quanto me e non in quanto lettrice, e riconosco che la parte di me cui dà fastidio ha preso la lente dell’analisi oggettiva e l’ha frantumata con un colpo di tallone.


È il sottotesto che non mi convince, c'è una morale che mi fa storcere il naso, la bocca, tutti i lineamenti. L’impressione che per l’autore la violenza sia un tutt’uno marcescente, un orrore senza sfumature che resta invariato a prescindere dalle circostanze. Come se la violenza dell’aggressore e la violenza dell’aggredito fossero la stessa cosa e il torto fosse da dividere equamente tra le parti, ed è una semplificazione che riesco a sopportare sempre meno, perché mi sembra sempre di più una fuga, un rifiuto di accettare la situazione per quella che è, spietata e complessa. È molto facile darsi degli assoluti che azzerino qualsiasi discussione su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, salvo poi fare i conti con una prassi umana parecchio lontana dagli ideali kantiani. A porgere continuamente l’altra guancia si rischia di legittimare ulteriormente una violenza che già a certi viene naturale. Seguo molte pagine di accelerazionismo memetico e c’è una citazione di Assata Shakur che ultimamente ricorre piuttosto spesso:



E mi pare parecchio pertinente a qualsiasi discorso su discriminazione e privilegio dovessimo tentare. D’altronde non ho mai vissuto da straniera – percepita – nel mio paese, e non sono davvero nella condizione di dire a Gunaratne o a chicchessia come dovrebbe percepire o gestire la minaccia e la discriminazione verso la sua persona. Mi rendo conto che ultimamente questo blog è diventato mezzo letterario e mezzo rant sociopolitico, che ci posso fare?
Selvon corre, Ardan rappa, Yusuf vuole giocare a calcio; io bestemmio sulla pace apparente.