Febbre da fieno di Stanislaw Lem - Indagine sull'indagine

Febbre da fieno – appena uscito per Voland nella traduzione di Lorenzo Pompeo – è il primo romanzo di Stanislaw Lem che abbia letto, ma non è il primo che mi abbia incuriosito. Sono stata a lungo tentata dalla copia di Solaris della mia coinquilina, e ancora di più da Vuoto assoluto, una raccolta di recensioni di opere inesistenti. Di Solaris ho visto il film di Tarkovskij un paio di anni fa senza capirci letteralmente nulla – c’è da dire che non ero proprio sobrissima e avrei fatto fatica a seguire L’albero azzurro, ma comunque.



Febbre da fieno è uscito in Polonia nel 1975 , a più di una decade di distanza da Solaris. Lem è una creatura ibrida nel panorama letterario, difficilmente classificabile se crediamo nel valore delle sfumature. Annoverato tendenzialmente nel settore più immaginifico e destabilizzante della fantascienza – accanto a Philip K. Dick – con altri titoli si è dato allo sperimentalismo con l’allegria eclettica di Calvino, e con Febbre da fieno si è divertito a scrivere uno strano romanzo tra il giallo e la meta-indagine – è sopra ogni cosa un romanzo sull’indagine e sui meccanismi deduttivi messi in atto da chi la conduce – con un occhio fisso sulla psicologia e sul funzionamento della mente. Per la prima metà del romanzo è difficile farsi un’idea di cosa stia accadendo. All'inizio del romanzo siamo già al centro della storia, e ci vorrà un po’ perché il protagonista e voce narrante ci metta alla pari con le indagini.

Del protagonista sappiamo fin dall’inizio che è un astronauta in pensione, americano, che indossa i vestiti di un morto. Deve viaggiare da Roma a Napoli, e percorre un faticoso tragitto in auto piagato dal caldo e dall’allergia. È stanco, irritabile e confuso, perché pure avendo chiaro quello che sta facendo più del lettore, non è che sappia poi così tanto di più; ha tutti gli elementi, ma gli manca un fattore comune. La sua indagine è fatta di schegge impazzite di probabilità che si ripetono fino a comporre uno scenario, che tuttavia non si riesce a identificare. Si fa quello che si può fare: cercare di cambiare prospettiva per vedere se le cose si fanno più chiare.



L’Europa in cui viaggia il protagonista somiglia alla nostra ma non è esattamente la nostra, benché possa apparire quasi intercambiabile. Un paio di avvenimenti ci dicono che qualcosa non va a livello più profondo – e adesso potremmo anche dirci “eh ma va’?”, ma nel 1975 chissà come la pensava Lem da polacco – e un paio di sottintesi, ma niente di più, e non so se valga a classificarlo come distopia.

Febbre da fieno è un’opera stranamente machiavellica, di quello strano che se provi a etichettarlo si ribellano i post-it. È spesso disturbante, soprattutto quando la messa a fuoco della realtà si dissolve, e la confusione del lettore aumenta insieme a quella del protagonista. Eppure insieme è anche divertente in modo complice, perché si sente quanto si è divertito Lem nel congetturare la sua serie di assurde probabilità.
Non so, c’è qualcosa di molto bello nel pensare a uno scrittore che si dice: “Oh, ecco la realtà, ora ci gioco”.