La libertà possibile di Margaret Wilkerson Sexton


Raccontare gli Stati Uniti è, ora più che mai, un vero casino. Lo scrittore di fantapolitica più audace deve alzare le mani e ammettere la propria impotenza immaginativa, che non potrà mai eguagliare l'assurda realtà – Idiocracy forse è riuscito a raccontarne una parte. Non si possono capire gli americani senza conoscerne la storia, un continuo subbuglio di valori e incoerenze, che pure non sono appannaggio esclusivo degli Stati Uniti, ma connaturate alla natura di ogni nazione. Il comportamento politico dell'uomo è distaccato dalla realtà, facilmente manipolabile perché intrinsecamente legato alla percezione del mondo come di un oggetto narrativizzato, e dunque narrativizzabile. L'essere umano è una creatura fatta di storie, la cui pervasività nell'interpretazione del reale è destabilizzante. Cerchiamo un senso, congetturiamo motivi, ipotizziamo influenze dove il caos minaccia l'illusione di un presente caotico, in cui i punti salienti sono frutto di errori, fallacie logiche, pure e semplici coincidenze. La storia è fatta in piccola parte da forti istanze di interesse che galleggiano su una placida marea di “figuriamoci se”.



Margaret Wilkerson Sexton scrive oggi, negli Stati Uniti. È nata e cresciuta a New Orleans, ha studiato legge e scrittura creativa, e nel 2017 ha esordito con La libertà possibile, finalista al National Book Award e arrivato in Italia con Fazi nella traduzione di Arianna Pelagalli. Nel suo primo romanzo, Margaret Wilkerson Sexton racconta una parte significativa dell'America, quella che è stata vissuta dalla comunità afroamericana, raccontata da un'autrice afroamericana – e possiamo ragionevolmente pensare che ne sappia più di molti wasp. Le storie di una stessa linea famigliare che si susseguono in un dispiegamento di cause e effetti a capitoli disordinatamente allineati. Si inizia a New Orleans, nel 1944. Evelyn e sua sorella Ruby incrociano due ragazzi coi quali si innesca nell'immediato un antiquato processo di corteggiamento. Sono afroamericani, e questo Margaret Wilkerson Sexton lo ripeterà ossessivamente, almeno all'inizio, al punto che alle prime pagine temevo che avrebbe continuato a ribadirlo fino alla fine del libro. È una strana scelta, perché implica la sensazione – e la consapevolezza – di un canone letterario in cui essere bianchi è la norma, una prassi sottintesa in cui la differenza necessita di essere non solo espressa chiaramente, ma ribadita.

La ripetizione esplicita si è interrotta presto, e si è assottigliata in un universo di aspettative e sottintesi. Una famiglia nera nella New Orleans del 1944, e qui si accendono tutte le altre significazioni. Il razzismo, la segregazione, il richiamo alle armi della guerra già in atto. La libertà possibile è la storia di Evelyn e Renard e dei loro discendenti, la figlia Jackie e il figlio di Jackie e del marito Terry, T.C., saltando dal 1944 al 1986 fino al 2010 – e poi tornando indietro e via ancora avanti etc.



I personaggi sono vividi, sentono profondamente, agiscono in base alle loro emozioni e non per qualche machiavellico gioco di trama. Sono ben scritti, la storia non li cannibalizza. Lo specifico perché i protagonisti, in un certo senso, non sono loro, ma il rapporto tra gli Stati Uniti e gli afroamericani, – un rapporto che sarebbe riduttivo definire abusivo. Il passato e le sue logiche conseguenze. Il ghetto, la marginalizzazione, i pregiudizi. Lo stereotipo avvelenato del nero interiorizzato dalla stessa comunità nera in una crudele profezia che si autoavvera, per T.C, nello spaccio e nel carcere.

Non sapevo granché di come se la passassero davvero gli afroamericani prima di leggere In fondo alla palude di Joe R. Lansdale; alle superiori degli USA non avevamo studiato nulla, i sei crediti di storia americana all'università dovevo ancora darli. È stata una scoperta agghiacciante e tardiva. Non è che non sapessi del razzismo, ma non sapevo fino a che punto arrivassero gli orrori – quanto fosse diffusa la violenza e capillare il KKK. Non avevo mai letto Il buio oltre la siepe, The help doveva ancora uscire. La mia ignoranza era abissale – la è ancora – e scusabile solo dal caso.
Lansdale racconta spesso, nei suoi romanzi, della condizione dei neri negli Stati Uniti, prima e dopo le battaglie per i diritti civili. È un uomo bianco, perfino texano, e dimostra che non c'è bisogno di far parte di un'infografica per poterne parlare dignitosamente e con concezione di causa – e dovrebbe essere una questione risolta, ma c'è ancora gente che chiede con stupore agli scrittori perché abbiano scelto un protagonista del sesso opposto, una brevità di vedute che mi pare sconvolgente.
Va da sé che Lansdale non è l'unico bianco che ha raccontato il razzismo e la comunità nera. Il creatore del detective Shaft – padre e figlio della blackspoitation – è un veterano bianchissimo.

Quello che mi preme sottolineare è quanto sia importante che una comunità non sia solo riconosciuta e raccontata con rispetto, ma che sia raccontata da e attraverso i propri membri. Il fattore razza è forte nelle opere di Victor LaValle, diventa preminente in Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie quando la protagonista arriva dalla Nigeria agli USA. A ben vedere, è centrale in buona parte delle narrazioni ad opera di scrittori neri – Colson Whitehead, Richard Wright, Toni Morrison. L'autonarrazione di un gruppo sociale è vitale. È il racconto più autentico e affidabile. Di norma è anche quello più spiazzante – da donna bianca alta un metro e uno sputo, difficilmente posso immaginare cosa si provi ad essere temuti e guardati con sospetto per una questione puramente cromatica. Se sei nero, negli USA, devi pensare pure a dove passeggi, perché in un quartiere residenziale rischi di attirare l'attenzione, i vicini potrebbero chiamare la polizia, e la polizia negli USA non è proprio famosa per sangue freddo e vastità di vedute.



Quindi Margaret Wilkerson Sexton ha preso la storia degli afroamericani negli Stati Uniti, ha scelto (creato) i suoi personaggi e ha spianato per loro una strada fatta di tutte le difficoltà che si trova ad affrontare un afroamericano. Ci sono un paio di momenti in cui al sentimento soffocante di predestinazione del disastro viene da anteporre la responsabilità individuale – ciccio, se potessi evitare di infilarti nella merda, cortesemente – ma l'individuo fa parte di un contesto sociale dal quale non può prescindere. L'indipendenza è un'illusione – le nostre storie personali sono fatte di caos e fortuna più di quanto non ci venga naturale ammettere. Siamo dove siamo più per le ripercussioni di atti altrui che per merito nostro. Ogni “perché” sottintende un'altra domanda, e quella ne racchiude un'altra ancora. Parti dal 2010 a New Orleans, dai quartieri distrutti, le case divelte dall'uragano Katrina. Ti chiedi perché un ragazzo così giovane faccia scelte così sbagliate, e c'è la storia difficile dei suoi genitori a spiegarlo. E ancora indietro, e indietro ancora.
Il mondo sarebbe così più semplice da decodificare, se a un'unica domanda non corrispondessero migliaia di risposte.