Resto qui di Marco Balzano

Era un po' che volevo leggere Resto qui di Marco Balzano, da quando avevo letto un paio di citazioni su twitter che mi avevano convinta senza il bisogno di andarmi a cercare informazioni aggiuntive come, chessò, la trama o l'ambientazione. Lo confondevo parecchio con un altro romanzo uscito lo stesso anno – 2018 – per la stessa collana Einaudi di un altro Marco – Rossari – che pure avevo scoperto su twitter e che avevo abbrancato in biblioteca non appena lo avevo adocchiato sullo scaffale, Nel cuore della notte. Chissà se capita anche ai due autori di confondersi tra loro.



Parto con una premessa; Resto qui mi ha raccontato una parte di storia italiana che non conoscevo, quella delle comunità tedescofone forzate dalla divisione territoriale seguita alla Grande Guerra a diventare italiane, e all'inasprimento delle leggi “a salvaguardia della nostra bella cultura” – riferimenti politici assolutamente voluti – che andavano a colpire e svilire il modo di vivere degli abitanti di quelle comunità. Un antagonismo linguistico, culturale e burocratico che non conoscevo e di cui non immaginavo la portata, e che ha fatto sì che per un certo periodo in certe zone del nord Italia si guardasse a Hitler come a un condottiero liberatore avversario del giogo mussoliniano.

Dunque, il romanzo inizia con una cornice di cui capiremo di più leggendo avanti, con la protagonista e narratrice, Trina, che ormai anziana si rivolge a qualcuno, a una persona cara che non fa più parte della sua vita. Poi Trina passa a raccontare di quando era una ragazza e studiava per diventare una maestra. Era il '23, il fascismo era appena asceso al potere, i problemi stavano giusto per iniziare. Gli esami di stato in una città vicina, perché Trina e le sue amiche vivevano in un paesino della Val Venosta nel Sudtirolo, Curon, poche centinaia di anime sparse in casolari che stavano a ridosso delle stalle e tanti pascoli. Vive coi genitori finché non si sposa con Erich, che come il padre fa il pastore e tiene il bestiame. I figli, i cognati che si trasferiscono accanto a loro, le difficoltà in un contesto in cui fare lezione di italiano è un reato e si rischia il confino. Il distacco improvviso dalla persona a cui non smetterà mai di rivolgersi, e poi la guerra e la minaccia che incombe da anni su Curon, la costruzione di una diga che finirebbe col sommergerlo.




La scrittura di Balzano è asciutta, nitida, ritmata come una marcia, con punte di bellezza. Trina è un personaggio forte e caparbio, guarda alle sue antiche emotività con un distacco che non sa di sconfitta, ma di rifiuto. “Andare avanti, come diceva Ma', è l'unica direzione concessa. Altrimenti Dio ci avrebbe messo gli occhi di lato. Come i pesci.”, scrive, e per tutto il romanzo tiene fede a quelle parole. Non che Trina sia arida, e a suo modo l'opera è poetica, sebbene riesca a sfuggire la tentazione di mitizzare e idealizzare la vita contadina, quella semplice “di una volta”.

L'emozione che trasmette maggiormente è di una rabbia quieta, sepolta. Curiosamente la grande tragedia di Trina non è la guerra, ma la perdita di un personaggio che si fonde alla perdita di Curon per la costruzione della diga. Che poi non è facile parlarne senza pensare alla TAV, alla ragionevolezza di un piano europeo contro il sentire di chi abita un luogo che non vuole scomparire – o cambiare radicalmente, che è un po' la stessa cosa. Non voglio impelagarmi in un lungo soliloquio di pro e contro, ma non mi va nemmeno di svicolare sulla questione. Sarebbe bello abitare un luogo in cui dopo un “sì” e un “no” puoi aggiungere un “ma”, che l'assoluto è un concetto astratto che l'essere umano adopera per comodità e difficilmente si riscontra nella realtà empirica.
Purtroppo il luogo non è questo.