Amy e Isabelle di Elizabeth Strout

Di recente ho fatto una strana scoperta, e se da un lato mi viene da dirmi “alla buon ora”, dall'altra mi sembra di aver scoperto un segreto antichissimo, che non so ben capire se sia noto a chiunque ma sommamente taciuto, o se siano pochi a vederlo e accettarlo. Il segreto in questione è che l'esistenza di un sistema di comunicazione umano pienamente condiviso è una menzogna che ci raccontiamo giorno per giorno; possiamo anche usare le stesse regole grammaticali e lo stesso lessico, ma da esseri umani ci portiamo dietro un bagaglio di vissuto e di ideologie che è nostro e soltanto nostro, ed è attraverso questo bagaglio che passano i nostri pensieri nella forma di frasi il cui senso vorremmo preciso e universale, e invece è filtrato dalla nostra persona, e nella decodifica verrà di nuovo filtrato, in entrata, dal bagaglio degli altri, ed è come giocare al telefono senza fili senza volerne accettare le conseguenze. Ognuno è un mondo a sé, un linguaggio a sé; qualcosa, nella traduzione, si perde sempre. Cerchi di essere discreto, risulti distante. Vuoi essere preciso, vieni fuori pignolo. Un paio di mesi fa io e un amico siamo rimasti incastrati in una discussione accesissima perché non davamo esattamente lo stesso significato alla parola "goliardia". Quel pomeriggio sudato – erano i giorni del Salone del Libro, ero tesa e stressata e sempre in procinto di uscire di casa – è stato un calvario.




Gli scrittori, molti scrittori, lo sanno. Sanno che le persone sono isole e che le relazioni sono ponti che possono scomparire da un momento all'altro. Sanno che le persone buone sono capaci di azioni crudeli, che le persone malvagie – esistono persone malvagie? È triste, ma temo di sì. La storia dice di sì. si credono buone, che ogni giorno ci lasciamo dietro senza saperlo una scia di incomprensioni e paragrafi di silenzi che avremmo dovuto riempire, e rimpianti per aver detto troppo, cose che magari non pensavamo, perché capita che la bocca si muova prima del pensiero, e una volta lanciata la pietra, è troppo tardi.

Elizabeth Strout lo sa. Ogni personaggio è un mondo a sé. Dalla protagonista all'ultimo dei passanti, tutti hanno la dignità di una storia, anche se è una storia spicciola e banale, anche se non avrà alcuna ripercussione sul mondo attorno, anche se non cambierà niente a nessuno, e non c'è una vera e propria utilità narrativa nel raccontare il pomeriggio di un personaggio di contorno, o le ansie di un passante; Elizabeth Strout se ne frega dell'economia narrativa, e fa bene. E mi fa bene. Se ci sono libri che possono salvarti la vita, quelli della Strout rientrano nella categoria. Amy e Isabelle come I ragazzi Burgess. Vorrei scriverglielo, una volta o l'altra. Grazie, Elizabeth, per avermi trascinato sulla stessa barca dell'esperienza umana, o almeno per avermi fatto capire che stavo su quella barca, che non la stavo fissando da lontano, tenuta a galla da un salvagente.




Ma magari parlo del libro. Per dire.

Amy e Isabelle è l'esordio di Elizabeth Strout. Scritto nel 1998, portato in Italia da Fazi nel 2000 nella traduzione di Martina Testa. È partita con un capolavoro, a cui sono seguiti altri capolavori – Resta con me, I ragazzi Burgess, Mi chiamo Lucy Barton. L'unico ad avermi lasciata freddina è stato Olive Kitteridge, con cui ha vinto il Pulitzer. La trama, vediamo. Amy e Isabelle sono rispettivamente figlia e madre; Amy ha quattordici anni, è alta e slanciata e sta diventando donna sotto una massa di splendidi riccioli biondi che sono l'unica parte di sé che le piace davvero. È una ragazzina, è nel pieno dell'età fragile. Ha un'unica amica, Stacy, con la quale fuma dietro la scuola durante l'intervallo. Passa il suo tempo a leggere o a casa con la madre. Non hanno un gran rapporto, sono entrambe troppo schive, e Isabelle non è la madre più facile del mondo. Ha cresciuto Amy da sola, e di questo va giustamente fiera, perché sente di aver fatto del suo meglio. Lavora come segretaria in una fabbrica di Shirley Falls, nel New England, non ha amiche tra le colleghe né in parrocchia, ed è innamorata da tempo immemore del suo capo. Amy e Isabelle vivono in silenzio, l'una è un segreto per l'altra, e più o meno va bene così.




Poi capita qualcosa. Qualcosa di disgustoso, anche se leggendolo col filtro degli occhi innamorati di Amy potrebbe perfino sembrare normale, ma a trent'anni quando leggi di come un professore irretisce una ragazzina, scavandole il percorso davanti ai piedi per scrollarsi di dosso ogni plausibile responsabilità, sai che la parola giusta è "schifo". D'altronde c'è gente convinta che Lolita sia una straziante storia d'amore, quindi che vogliamo farci?, Amy si innamora, debitamente incoraggiata, del suo professore di matematica, e le cose vanno come devono andare. “Schifo”. E nel mezzo dello schifo, Amy e il professore vengono scoperti proprio dal capo di Isabelle, che si affretta a raccontarglielo. Inizia una frattura, un calvario estenuante; la casetta di Amy e Isabelle diventa troppo piccola, piena di astio e recriminazioni. Non si parlano, e quando parlano non si capiscono.


E le cose vanno avanti. L'estate prosegue, Isabelle lavora in un caldo soffocante, Amy per un po' lavora con lei. Attorno a loro le colleghe con le loro beghe, e la splendida Fat Bev, un chiacchiericcio costante e allegro, un personaggio che dimostra quanto la Strout capisca le persone. Sarebbe facile prendere la figura di Fat Bev e ridicolizzarla; guarda quanto mangia, quanto parla, non riesce a stare in silenzio coi suoi pensieri. Ed è una donna meravigliosa, la persona che sarei fortunata a diventare, l'esempio sublime di come l'essere umano sia bellissimo e imperfetto. Non fa nulla di così speciale, ben inteso. Ma è una bella persona, e questo non è poco.


E quindi la storia va avanti, le cose restano mutate per un po' e poi cambiano di nuovo e di nuovo ancora, perché è così che succede. Le situazioni cambiano, le persone cambiano, a volte restano impantanate e poi si disincagliano.

Quanto è strano il mondo costruito dagli umani.

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