Dunque, vediamo. Qui la prendiamo alla lontana sul
serio. Ma di brutto.
C'è questa amica di mia madre, chiamiamola Lola, con
una figlia ormai maggiorenne, chiamiamola Nona, che quando ci siamo
conosciute avrà avuto sì e no quattro anni. Il tempo vola come un
dannato, diamine. Dunque, c'era Nona, ai tempi, che sale sulle
ginocchia di un'amica di sua madre, la fissa tutta concentrata e le
dice “Certo che sei proprio brutta”, senza cattiveria,
constatando un semplice dato di fatto. La tizia in questione ha
risposto ridendo sgangherata, con la grazia tipica di chi cresciuto
sul limitare tra Liguria e Toscana – chiusi e grezzi, siamo
insopportabili – e non se l'è presa. Dopotutto Nona era una
bambina, e diceva quello che pensava fosse vero, probabilmente
seguendo il veto collodiano sulle bugie. Ed è anche in luce di
questa sua crudele onestà che quando qualche tempo dopo ci siamo
ritrovate a chissà quale Festa dell'Unità e mi ha detto che “da
grande sperava di diventare come me” le ho creduto e non ho pensato
a una spudorata ruffianaggine. E dire che all'epoca sarò stata
appena diciottenne, e mi sentivo mostricciattolo molto più di quanto
non fossi; però Nona era sboccata e sincera, e quel complimento mi è
rimasto impresso, perché sentivo di poterci credere.
Lo dicevo che l'avrei presa alla lontana, no? L'assunto
cui tenevo ad arrivare è che da bambini ci insegnano a non mentire.
Le bugie sono il male, la verità è il bene e più o meno è con
quest'idea in testa che ci approcciamo al mondo. Eppure più andiamo
avanti e più si impara che no, le bugie si dicono eccome. Anzi, si
devono dire. Crescendo i rapporti umani diventano più complessi e
sfaccettati, anche e soprattutto quelli più stretti, ci si vede
costretti a mantenere un equilibrio tra detto e non detto fatto di
cavoli propri, cavoli altrui, contesto, tempistiche, umori etc. I
rapporti umani sono un casino e non mi capacito di come l'eremitaggio
sia visto tuttora come una soluzione estrema.
I provinciali di Jonathan Dee, appena uscito per Fazi
nella traduzione di Stefano Bortolussi. Consigliato da Elizabeth
Strout, da George Sanders, da Richard Ford – ma io di questa
terzina dorata ho letto solo la Strout, e del suo parere mi fidavo
ciecamente. E mi chiedevo come mai, visto che il primo capitolo mi
aveva vista arrancare, tanto più che avevo già cassato un altro
libro speditomi da Fazi e mi sarebbe dispiaciuto ripetere così,
senza intervallo. Il capitolo in questione, il primo, era scritto dal
punto di vista di un tizio insopportabile; 'sto saputello nichilista
guardone cleptomane forse pure mezzo tossico, non ricordo. Raccontava
di questa sua giornata vissuta attraverso un filtro di profondo
fastidio nei confronti del'universo-mondo, subito dopo l'11 settembre. New
York annichilita, gli USA improvvisamente sconfitti nel morale al
primo colpo. Era stato truffato, e aveva appuntamento con un
avvocato e non sopportava quell'aria da martire sconvolto di chi gli stava intorno. Nello studio dell'avvocato – assente – si presenta
anche un altro gonzo, Mark Firth, e il tizio pensa bene di
agganciarsi a lui e di fregarlo doppiamente.
Da qui in poi, la narrazione passa a Mark e poi ad altri
abitanti della sua cittadina, Howland, un angolino di Massachusets
periferico, sede di svariate seconde case, di un ufficio postale
appena raffazzonato e con un consiglio comunale quasi ufficioso, il
classico paese piccolo in cui tutti conoscono tutti.
Ecco, la cosa strana è che pur con tutti i personaggi che
trovano la loro voce in I provinciali, - e sono tanti – le uniche
voci lucide, al netto del narrato, sono quella della figlia di Mark,
Hailey, e dello spostato del primo capitolo.
Howland è una cittadina di dimensioni ridotte, ma è
pur sempre l'America, col suo sogno americano e quella tendenza al
successo che è costato al mondo intero una crisi economica che non è
ancora finita, resa possibile da una predisposizione sociale
all'incoscienza finanziaria. Gli USA come terra della promessa, in
cui tutti possono farcela se si impegnano, basta solo essere
abbastanza audaci da osare etc. Howland, anche se è piccola, non
difetta in ambizione. Soprattutto quando diventa la dimora di un
magnate della finanza, un certo Mr Hadi, che farà da catalizzatore
delle speranze e delle possibilità ideali di Howland.
Ma siamo ancora nel 2001, all'inizio del romanzo – che
termina proprio all'inizio della crisi – e nessuno ancora parla di
bolla edilizia e mutui subprime. Ci sono Mark e sua moglie Karen,
pignola e insoddisfatta. Non che Mark sia poi tanto meglio,
l'inossidabile Mark, che il tizio del primo capitolo ci ha descritto
come un “bullo ripulito”, o qualcosa del genere. C'è Gerry
Firth, il fratello difficile di Mark, che scrive rabbiosamente sul
suo blog anonimo; c'è la loro sorella Candace, che potrebbe essere
l'altra voce lucida e cosciente del romanzo, se non fosse che sembra
più assistere agli accadimenti, che prendervi una parte attiva. Ci
sono i consiglieri comunali, il rissoso Barrett che lavora a chiamata
per Mark. Mark ristruttura case, e gli piace quello che fa. Le rende
belle, ricercando con cura la mano dei professionisti e rari pezzi
d'epoca. Ma a Howland è arrivato Hadi, di una ricchezza così
incurante e spropositata che possiamo definirla solo incalcolabile, e
Mark gli ristruttura la casa, e stando a stretto contatto con lui
decide che quello che ha non gli basta più.
Non è proprio come se Mark cambiasse, piuttosto è come
se si risvegliasse qualcosa che aveva già dentro, quella strana
convinzione di meritare qualcosa di più solo per il fatto di
esistere, quella fame divorante che non si può saziare. Vai a
capire. Ma non è solo Mark a cambiare, è tutta Howland. Sono le
persone che gli stanno attorno, o personaggi più periferici. Il
punto, in questo romanzo, è sviscerare la natura del sogno americano,
di quello che fa alle persone. E insieme di puntare una luce
abbagliante sulle menzogne che ci raccontiamo o che tendiamo a
raccontarci. A lettura ultimata ho raggiunto la mia coinquilina in
cucina e le ho detto che avevo capito un aspetto importante
dell'essere adulti, che crescendo non smettiamo di raccontarci
favole, sono solo molto più noiose. Lei mi ha guardato come fa
sempre quando le mostro la mia Ovvietà del Giorno, perché lo sapeva
già. Io imparo più lentamente, che ci devo fare.
Perché Howland è un po' un disastro annunciato. Leggi
di questi personaggi che si fanno prendere dalla foga del guadagno
facile, e intanto osservi le dinamiche sociali e relazionali, di come
uno si dica di essere un certo tipo di persona e giustifichi le
proprie azioni con una selva di eccezioni, vedi prese di posizione e
subito dopo piccole vigliaccherie. E diamine, è anche così che si
va avanti, raccontandosela un po'; ma è spietato, il modo in cui
Jonathan Dee ce lo schiaffa in faccia.