Cronache marziane di Ray Bradbury

Difficilmente inizio a leggere un autore partendo dal suo capolavoro – o dai suoi capolavori. Ci sono delle eccezioni, naturalmente – Philip Roth l'ho attaccato subito con Pastorale americana, e Ian McEwan con Espiazione – ma perlopiù cerco di farmi un'idea di quello che uno scrittore ha da offrirmi pescando intorno alla metà della sua produzione.
Ray Bradbury, per dire, l'ho conosciuto con Il popolo dell'autunno, - ho difficoltà ad approcciarmi a Fahreneit 451, e se mi deludesse? - e solo pochi giorni fa ho terminato la lettura di Cronache marziane. Sapevo cosa aspettarmi? Assolutamente no. Tutto ciò che mi figuravo era “gente che vive su Marte”. Ignoravo che si trattasse di una lunga serie di racconti che si gettano nella fantascienza e poi nel realismo magico e nella filosofia e nella teologia e poi tornano alle piccole cose di tutti giorni e alle grandi tragedie che l'uomo si porta dietro.
Cronache marziane è uscito nel 1950 e raccoglie 28 racconti più o meno brevi, che attraverso i più disparati personaggi riescono a dare un'idea di come sia andata la colonizzazione di Marte dal 1999 al 2026. I racconti si tuffano in tematiche disparate e spesso pungenti; la perdita, la fuga, la ricerca di una condizione migliore, l'auto-inganno, la morte, il ritorno. La bellissima lingua di Bradbury, il suo occhio dolente, il suo inchiostro infame.
È uno dei titoli più emblematici della fantascienza, e lo è proprio perché ne allarga gli orizzonti. A Bradbury importa poco della scienza; i suoi personaggi entrano ed escono dalle astronavi senza raccontarci dei comandi né delle conquiste tecnologiche che hanno permesso un viaggio tanto periglioso. Quello che conta sono le persone, e la bellezza di uno scenario incomprensibile che in qualche modo prende vita, e diventa attore.
Che si può dire di Cronache marziane? Davvero, cosa posso aggiungere alla discussione?
Niente. E infatti mi zittisco.
Va letto.