Spesso ho difficoltà ad approcciarmi alle biografie,
soprattutto alle auto-biografie. Non amo che un libro sia troppo
legato alla vita di una persona, che la trama resti impigliata nei
fatti realmente accaduti al punto di non riuscire a prendere il volo.
Vero è che ci sono vite straordinarie, e narratori che riescono a
raccontare l'ordinario in modo straordinario, - e anche ottimi
bugiardi.
Non amo la biografia come genere, anche se mi è
capitato di leggerne e apprezzarne. L'autofiction, invece,
concettualmente non mi spiace affatto. Mi piace l'idea di uno
scrittore che prende se stesso e si ri-racconta esplicitamente; lo
preferisco grandemente a quel brutto vizio che è cercare di
risolversi la vita attraverso la salvezza dei propri personaggi.
Hanno scritto autofiction Borges, Sartre, Vargas Llosa.
In Italia Dante, Genna, Scurati. Il termine è stato coniato dallo scrittore francese Serge Doubrovsky nel 1977, come oltre il link l'Enciclopedia Treccani. Ne
continuava a parlare Carlo Mazza Galanti nel 2010 su minima et moralia, e su Repubblica è recentemente un pezzo di Paolo di Paolo
(candidato allo Strega nel 2013 con Mandami tanta vita), intitolato
Il boom del romanzo autobiografico: moda o verità? Non
è un genere morto, questo è sicuro. C'è ancora un sacco da dirne e
da leggerne.
Pochi giorni fa ho
terminato la lettura di Verderame
di Michele Mari, edito da Einaudi nel 2007. Premetto che ultimamente
quando mi metto a parlare di Mari, poi finisco a sproloquiare
spiraleggiando di argomento in argomento, allontanandomi furiosamente
dal romanzo e dalla trama. Io vi avverto. Difatti ho iniziato il post
con una divagazione sull'autofiction. Di Mari comunque ho
chiacchierato entusiasticamente dopo aver letto Roderick Duddle, e
più recentemente con Di bestia in bestia.
Ad ogni modo, Verderame
è pura autofiction. L'autore racconta di un'estate passata dai nonni
a Norna, nel varesotto, quando aveva tredici anni, nel 1969. Era un
ragazzino pieno di energie da sfogare in fantasie e visioni distorte,
che leggeva troppo e orrorificamente – cita Poe e Lovecraft con
affetto – e ha come migliore amico il mezzadro della tenuta dei
nonni. Lo definisce mostro per il suo aspetto turpe e per la crudeltà
con cui si accanisce sulle lumache; avrà tra i cinquanta e i
sessant'anni, è poderosamente ineducato e non si esprime che in
dialetto, cosa che mi ha ostacolato non poco la lettura. Si chiama
Felice e ha iniziato a perdere la memoria, pezzo per pezzo, e Michele
quella memoria vuole recuperarla, e inizia a interrogarlo sul suo
presente, sul suo passato, e cose putride tornano in superficie,
cadaveri e altre schifezze si affacciano su un'estate che rischiava
di trascorrere spensierata.
In Verderame
Mari ambienta una storia in quell'intersezione temporale tra l'ultima
infanzia e l'adolescenza, quando siamo abbastanza grandi da vedere e
capire la parte brutta del mondo ma anche abbastanza piccoli da aver
voglia di giocarci. Michele indaga il passato oscuro di Felice, e qui
è un rimpallo tra la memoria perforata del vecchio e la fantasia
sfrenata del ragazzino, a chiederci dove sia la verità della storia.
La storia di Felice affonda in un passato sanguinoso, tra la guerra,
i partigiani e tutto il resto.
Ma il punto non è
tanto la Storia; il punto con Mari mi sembra tendere verso la
distorsione della storia nella visione del narratore stesso, e
sull'atto stesso della narrazione. Soprattutto in questo romanzo, in
cui l'età di mezzo riveste un ruolo così importante. È una
stagione oscura.