La famiglia Aubrey di Rebecca West


Da piccola ascoltavo un sacco di musica classica. “Un sacco” si fa per dire, perché la rete come la conosciamo adesso doveva ancora arrivare, così come i cd e il concetto di mp3; diciamo che buona parte di quello che ascoltavo di mia sponte era la poca musica classica che ero riuscita a reperire, – i dischi del nonno, una musicassetta registratami da chissà chi piena di Tchaikovsky e Chopin, che ascoltavo lanciandomi da una parte all'altra della cameretta su una poltrona con le rotelle.
Rimpiango di non aver studiato la storia della musica classica almeno quanto rimpiango di non aver mai imparato a suonare uno strumento musicale, uno qualsiasi. Qualche anno fa mi è venuto lo sghiribizzo di imparare qualcosa di più, e tra i manuali (qui) e la narrativa (qui e qui) qualcosa ne è anche uscito. In quel periodo sarei stata davvero contenta, se fossi riuscita a mettere le mani su La famiglia Aubrey di Rebecca West, uscito per Fazi a inizio mese nella traduzione di Francesca Frigerio. Trattasi del primo volume di una corposa familiare, pubblicato per la prima volta nel 1956.
Ho iniziato parlando di musica, e ci torno subito: la famiglia Aubrey è composta principalmente da musicisti, e la protagonista e narratrice, Rose, suona il piano insieme alla sorella Mary, sotto i dettami della madre, in gioventù una promettente musicista. Il padre però è un personaggio... beh, difficile da definire. Ama i suoi figli, ma sperpera il denaro di famiglia; ama la moglie – credo? – ma vende ciò cui è più affezionata pur di poterselo giocare. È colto, arguto, detentore di alti principi morali, eppure se fosse per lui la sua prole potrebbe pure dormire sotto un ponte. Eppure, ripeto, c'è tutto l'affetto del mondo. È la malattia del gioco, o forse il gioco è soltanto un sintomo.
La famiglia Aubrey comprende anche la primogenita Cordelia, totalmente priva di talento musicale, e Richard Quin, il fratello piccolo e immensamente dotato, – non sappiamo bene come e perché, sta di fatto che il genio gli brilla in volto.
Rose, che all'inizio del romanzo non è che una bambina, ci racconta della sua sgangherata famiglia nell'Inghilterra tra fine '800 e inizio '900, della loro sistematica mancanza di denaro, dei loro abiti sdruciti, delle crisi che arrivano a ondate, dei rapporti con la cugina Rosamund. La musica c'è sempre, è un sottofondo continuo, perché Rose e Mary il piano sanno suonarlo davvero, e la loro madre è un'insegnante severa, perché spera di potere assicurare per loro un futuro almeno da concertiste. Per la famiglia Aubrey la musica è tutto, tranne che per il padre, che è fatto di lettere, politica, socialismo in divenire. Ma c'è anche altro, la musica non divora la narrazione, non si fa ossessione. La voce di Rose è schietta, onesta e si sofferma su tutto ciò che la circonda, su ciò che la interessa di più; il centro del suo mondo è la sua famiglia, sono la madre e il padre, è il bozzolo che si sono creati nel loro misero angolo di Londra.
È un romanzo pieno, scorrevole, gonfio di vicende spicciole e di assurdità incomprensibili, – che adesso non sto a spiegare. Lo sguardo di Rose è acuto, il legame con la madre, che condivide col resto della nidiata, è bizzarro e commovente, – ma ne parlerò più avanti, mi sa.
Va da sé, lo consiglio di brutto. Se poi avete velleità musicali, anche meglio.