All'ombra di Julius di Elizabeth Jane Howard


All'ombra di Julius di Elizabeth Jane Howard, oggi in uscita per Fazi nella traduzione di Manuela Francescon.
È difficile iniziare a parlare di questo libro; subito si affaccia alla mente la saga dei Cazalet, eredità ingombrante che – spero – guadagnerà all'autrice il suo meritato posto tra i grandi narratori del '900. Sorgono paragoni, rimandi, commenti sullo stile che è rimasto immutato, sull'analisi profonda che la Howard opera nei più profondi recessi dei suoi personaggi.
Anzi, no, non è un'analisi. “Analisi” dà come un senso di scientifico, sperimentale, invece leggendo la Howard ci muoviamo in un terreno contaminato di passioni, passi falsi, contraddizioni. I suoi personaggi mancano della ferma coerenza cui siamo abituati nella narrativa, non sono schiavi di una motivazione chiara e scatenante di ogni mossa. Sono umani, sono persone. Vogliono una cosa, dicono di volerne un'altra, e ne fanno un'altra ancora, forse perché più semplice o perché più ghiotta. Estremamente, dolorosamente umani.
Dicevo, All'ombra di Julius. Elizabeth Jane Howard mi ha abituata a seguire con dedizione e lentezza le mosse dei suoi personaggi; dal primo volume, che ha inizio nel 1937 fino all'ultimo, che si conclude negli anni '50, osserviamo da vicinissimo le vicende di vari membri della famiglia, certi fin dall'infanzia, altri fino alla vecchiaia.
In questo volume, invece, tutto accade nel giro di un fine settimana, in una casa di campagna dove due sorelle hanno deciso di fare visita alla madre. Pochissimi personaggi rispetto alla folla di Cazalet cui siamo abituati, e un lasso di tempo brevissimo. L'intensità, in un certo senso, risulta condensata, e l'effetto è ben più forte.
Siamo negli anni '60, a Londra. Ci sono Emma e Cressy, le sorelle di cui dicevo poc'anzi. La prima ha 27 anni, è calma, timida e riflessiva e lavora nella casa editrice di famiglia, eredità paterna.
Cressy ha dieci anni più dell'altra, è una concertista professionista ed è una bellissima vedova di guerra che continua a impelagarsi in relazioni che non portano a nulla. Sono diverse l'una dall'altra, e molto unite, com'è giusto che siano due sorelle.
Cressy farebbe a meno di andare a trovare la madre per il weekend, ma pensa che la piccola vacanza potrebbe aiutarla a farsi forza per mandare a quel paese l'attuale amante – sposato. A Emma piace far visita alla madre, e d'istinto decide di portarsi dietro Dan, un poeta pubblicato dalla casa editrice giunto proprio quel giorno a chiedere le royalties, con cui si è trovata insolitamente a suo agio.
E poi c'è Esme, la madre di Cressy ed Emma. Esme che è stata una splendida donna, anch'essa, come Cressy, vedova di guerra. Vedova di Julius. Quello stesso fine settimana, Esme attende l'arrivo di un vecchio amico, Felix, che a tanti anni dal loro ultimo incontro le chiede di poterla rivedere.
Ciò che pare semplice diventa complicato; anzi, complicato lo è sempre stato. Più che altro, il rimosso torna a galla e diventa preminente. Ciò che è stato smussato, torna a tagliare. I veli pietosi si dissolvono, ogni trama personale viene allo scoperto poco a poco.
Insomma, complicatissime dinamiche relazionali e famigliari.
Tutto qui? No. Cristo, no. È Elizabeth Jane Howard. Le basta una scena per trapanarti il cranio e riempirlo di ciò che preferisce – pena, rimpianto, vergogna? Oppure l'esaltante gioia di un personaggio pienamente felice?
Credo che in questo romanzo come non mai sia presente il tema del non-detto, del dato-per-scontato, delle parole che si bloccano sulla lingua per vergogna o per orgoglio. Di questioni di principio che diventano barriere, di quella dissimulazione che portiamo avanti quotidianamente e che una volta dissolta può diventare violenza.
Mi chiedo, in retrospettiva, cosa ne pensasse davvero l'autrice del finale. Io sono ancora combattuta – ma non mi pare il caso di disquisirne qui, che diamine.
L'analogia tra Emma e Cressy ed Elinor e Marianne Dashwood di Ragione e Sentimento – la mia adorata Jane Austen – è lampante; cambia il contesto in cui si muovono, ma non le loro passioni e il loro riserbo.
Unico appunto, che non è davvero un appunto, è Julius. Julius che ha vissuto nell'ombra, che scompare tra le righe e pare ininfluente in morte quanto è stato in vita. È strano dispiacersi per un personaggio a malapena incontrato, ma mi sento quasi in colpa nel dire che non ho sentito il peso nemmeno della sua ombra.
In sostanza, io All'ombra di Julius l'ho adorato visceralmente, perfino più di quanto non abbia amato la saga dei Cazalet. Lo sguardo acuto e spietato della Howard sulla mente umana è splendido e terribile insieme. Nessuno è perfetto, nessuno è incolpevole, tutti meritiamo di essere salvati.