Bull Mountain di Brian Panowich

Anche sforzandomi, non riesco a ricordare dove abbia incontrato questo libro la prima volta. Forse all'ultimo Salone di Torino, forse vagheggiando sull'internet, più probabilmente mentre giravo per librerie alla ricerca di regali. Il punto è che mi era rimasto come un punto fisso in testa, dunque non appena mi è giunto un buono da spendermi in libri, PAM, preso. Arrivato. Letto. In due giorni.
(uno e mezzo.)
Dunque, Bull Mountain di Brian Panowich, edito da NNeditore nella traduzione di Nescio Nomen – un collettivo di traduttori, che cosa curiosa.
Che ne penso, che ne posso dire? Vediamo.
Siamo in Georgia, nel 2015. Il protagonista, lo sceriffo Clayton Burroughs, fa parte di quella famiglia di sociopatici manigoldi che gestiscono un immane giro di droga, grazie all'antico possedimento familiare dell'enorme Bull Mountain. Clayton è sposato con una donna che ama, è un ex-alcolista, non vuole altro che smarcarsi dalla nomea della famiglia. Allo stesso tempo, continua a sentire una sorta di legame con l'unico fratello criminale rimasto, Halford.
Capita che Clayton riceva la visita di un federale che gli annuncia l'avvicinarsi di un'operazione su scala nazionale per svellere i Borroughs e i loro traffici da Bull Mountain e dalla Georgia. Ma Halford può collaborare, se vuole, svendere i suoi collaboratori negli altri stati, tenersi la montagna e quel che ne rimane. Starebbe ora a Clayton convincere il fratello – e buona fortuna.
La trama non è granché originale, c'è da dirlo. Un poliziesco dai toni noir, con buoni personaggi ma niente di eccezionale. Eppure me lo sono divorato in meno di due giorni, e so ben dire perché.
Il punto è l'importanza rivestita dal passato. Il punto è la consapevolezza di Panowich nel raccontare la storia della famiglia Borroughs, partendo dal 1949, dall'incontro tra i due fratelli Rye e Cooper per discutere della cessione della proprietà di famiglia, così come i capitoli che ripercorrono la storia del padre di Clayton e Halford, importanti tanto quanto la narrazione del presente dei due fratelli.
È un romanzo potente che non pretende di essere perfetto. Il poliziesco è forse il genere più pregno di stereotipi, al punto che non si può neanche parlare di “cadere nel cliché”. I dialoghi tra personaggi che devono per forza farsi passare da veri duri, l'immancabile scazzottata, la tensione che preannuncia una violenza non necessaria. Ci vogliono, diamine.
E Panowich non ce li fa mancare.
Ma aggiunge pure tanto altro.

(sì, mi è piaciuto un sacco, lo dico e lo ripeto.)