In
realtà non era con questo libro che avrei voluto iniziare a leggere
Michael Chabon. Volevo che fosse Le fantastiche avventure
di Kavalier e Clay, con cui ha vinto il Pulitzer nel 2001 e che
mi dà l'idea di essere un road-trip abbastanza tosto. Ma ero in
biblioteca, avevo appena scoperto che al piano superiore c'era una
sala a scaffale aperto – sì, beh, nessuno me l'aveva detto in
tutti questi mesi – e questo è il libro che mi sono trovata
davanti. Tra l'altro ero così entusiasta della scoperta che mi sono
portata via un po' tutto quello che ho trovato che potesse
interessarmi e metà dei libri li ho dovuti portare a mano perché in
borsa non ci stavano. E per quello che ho letto finora, devo dire che
ho scelto benone, pure se guidata dal più cieco istinto.
Dunque,
Wonder Boys di Michael Chabon, edito da Rizzoli
nel 2002 nella traduzione di Luciana e Margherita Crepax.
Attualmente, temo, fuori catalogo.
Il
protagonista e narratore è Grady Tripp, – che poi con 'sto nome
non è che si potesse pretendere, eh – uno scrittore e professore
universitario appena affacciatosi ai quaranta, con un manoscritto non
finito di circa duemila pagine basato sulle vicissitudini della
famiglia Wonder; va da sé che il titolo del libro riprende il suo
stesso romanzo. Sono sette anni che sta dietro al libro senza
riuscire a finirlo, ha prosciugato l'anticipo della casa editrice e
attende l'arrivo di un suo caro amico nonché agente letterario e
editor, Terry Crabtree, cui dovrebbe consegnare almeno una bozza del
marasma che è riuscito a produrre. Nel frattempo la sua università
organizza il Wordfest, un festival che si svolge a casa del rettore
per promuovere l'incontro tra aspiranti scrittori (studenti),
scrittori, professori, editor e agenti letterari. Solo che Grady è
quel tipo di persona stupidamente autodistruttiva che riesce a colare
a picco in una piscina vuota, e quello che dovrebbe essere un
tranquillo week-end di conferenze letterarie si trasforma in
un'epopea di proprietà rubate, personaggi improbabili e situazioni
familiari imbarazzanti.
Non
provo un particolare affetto per Grady, ma ammetto che è difficile
non empatizzare con lui. C'è dell'onestà nel suo essere un
disonesto, ecco, nel suo distruggere e distruggersi. Trovo che manchi
l'ironia – non è una critica, tutt'altro – tranne quando si
scivola nel paradosso, perché i momenti in cui Grady passa dalle
fantasticherie su Kerouac alla realtà sono vividi e potenti e
tagliano. Non che sia un libro tragico o con forti carichi
depressivi, tutt'altro. È divertente, pieno di movimento, scorre; è
il legame di Grady con la letteratura e poi con se stesso e poi con
la propria vita privata ad essere sottile e altilenante in modo quasi
doloroso.
L'ho
già detto, ma voglio specificarlo di nuovo: ciò che ho gradito di
questo libro, oltre ai personaggi e al modo in cui viene dipinto il
panorama editoriale-letterario, è il sub-strato di realtà che non
abbandona mai lo scorrere della storia. Voglio dire, Grady è un
ammiratore di Kerouac, crede nei viaggi pieni di sorprese, gonfi di
problemi la cui bellezza esula dalla risoluzione, crede nel
significato delle cavolate che mette in scena. Il mondo attorno,
però, non ci crede, e nemmeno Chabon. Ovvero, crede nella bellezza
di un simile viaggio e nei suoi significati, ma la realtà con tutte
le sue conseguenze rimane presente, ecco. A prescindere dai paradossi
e dalla risoluzione finale.
Quindi
ovvio che io consigli questo libro, in caso riusciate a trovarlo,
magari in biblioteca. Ho la sensazione che Chabon sia uno di quegli
ottimi autori che in Italia non abbiamo ancora imparato ad amare e ad
apprezzare, e temo che ce lo lasceremo sfuggire, poi tra un paio di
decenni arriverà un editore a riscoprirlo e ci sarà un nuovo
effetto John Williams (Stoner).