Mi
accingo a iniziare questa recensione con un misto di senso di colpa e
di inadeguatezza, che ormai la sensazione delle dita sulla tastiera
mi risulta quasi estranea. Era dagli albori del blog che non mi
prendevo una vacanza così lunga da questa pagina, e credo sia la
prima volta che mi prendo la cosiddetta “pausa estiva” che
accomuna tanti blogger. Non che l'avessi deciso – altrimenti,
probabilmente, avrei almeno avvertito – più che altro mi sono
trovata immersa in routine non del tutto mie, e col tempo che mi
rimaneva non sapevo che farne. O forse lo sapevo fin troppo, sono una
frana a spiegare quanto a capire, mi viene da affastellare insieme
tutte le motivazioni plausibili senza poi riuscire a riconoscere
quella vera. Spero di non essere l'unica.
Dunque,
vediamo, L'arte della guerra zombi di Aleksandar Hemon,
edito da Einaudi nella traduzione di Maurizia Balmelli.
Dello stesso autore avevo adorato mesi fa Il libro delle mie vite,
ivi recensito con evidente gradimento.
Di
che parla codesto libro? Di un aspirante sceneggiatore che vive la
propria vita come se l'assenza di una trama precisa lo confondesse.
Uno di quei personaggi lì, deboli e inconcludenti, le fedeli
banderuole del destino che spesso mi irritano e talvolta mi
affascinano. La differenza, per me, la fa la profondità del
personaggio, del suo eventuale tormento, che può renderlo un eroe
tragico, un eroe di vetro. In assenza, di norma si tratta di un
emerito piagnone. Ed è un po' questo il caso. Dicevo, il
protagonista è Joshua Levin, trenta-qualcosa anni, ebreo, un lavoro
come insegnante di inglese in una scuola per ebrei emigrati in
America. Sta con una donna che definisce perfetta, che lo irretisce,
lo affascina e... non lo so. Si chiama Kimiko, è una psicologa per
l'infanzia e pare fungergli da donna angelo in versione porno. Non è
che il personaggio di Kimiko sia privo di spessore; è Joshua che non
riesce a vederla, e a noi arriva soltanto la sua versione – anche
se in terza persona.
Il
libro inizia in un momento che pare piuttosto normale nella vita di
Joshua; ha Kimiko, ha un lavoro, ha la sua incrollabile ambizione di
diventare uno sceneggiatore, ha un appartamento in affitto. Poco a
poco le sue giornate si riempiono di problemi, problemi diversi e
apparentemente facilmente risolvibili, che si fanno più grandi col
passare del tempo. Problemi normali e meno normali, uno dei quali è
un personaggio che per me vale quanto tutto il libro, ovvero il
padrone di casa di Joshua, un ex-marine folle ossessionato da lui che
se non ci fosse stato non so quanto avrei gradito la lettura.
Fino
a metà la lettura si mantiene placida, ritmata. Un romanzo il cui
centro è un tipo tutto sommato normale, con una vita normale, le sue
imperfezioni – tante – e poco più. È più o meno da metà in
poi che il romanzo si fa dannatamente appassionante, quando le
magagne di cui Joshua ha continuato a rimandare la risoluzione gli
piombano addosso come un uragano di sterco. E da lì in poi è una
corsa, un mezzo pulp con attimi di Tarantino, con scene che ho
veramente adorato.
Ci
sono alcuni aspetti che ho gradito molto di questo libro che finora
ho taciuto: il primo è la sceneggiatura di Joshua che dà il nome al
libro, palesemente dedicata all'insorgenza di un virus zombi, di cui
alcune scene alterneranno i capitoli dedicati alle vicissitudini del
protagonista. Geniale la trovata dell'ultimo capitolo, di cui
ovviamente non dico nulla. Un altro aspetto sono gli abbozzi di
sceneggiatura, le idee abbandonate di Joshua, che ogni tanto vengono
riportate sulla pagina. Onestamente? Certe mi piacerebbe leggerle in
forma di romanzo o vederle in forma di film. Insomma, certe sono
fantastiche e vorrei vederle sviluppate in qualche modo. Spero che
Hemon ne tenga da parte qualcuna, che diamine. L'ultimo aspetto cui
sento di dovere almeno una menzione sono i dialoghi. Va bene che
stiamo parlando di Hemon, non di uno sbarbatello dell'editoria, però
si tratta di quel tipo di dialoghi che davvero convincono e
funzionano. Cosa che non è poi così scontata, purtroppo.
Che
altro? Potrei tirare un lungo pippone sulla possibile volontà
dell'autore di parlarci dell'assenza di controllo che abbiamo sulla
nostra vita, sul fatto che forse siamo tutti dei potenziali Joshua
Levin, che le nostre esistenze non hanno una vera e propria
struttura, siamo noi a inventarcene una perché il nulla ci fa paura.
Ma magari evito, che fare le pulci alle intenzioni degli autori non è
proprio roba per me.