Jayber Crow di Wendell Berry

Tra un paio d'ore dovrò uscire di casa per prendere il treno che mi condurrà alla meta finale delle mie vacanze, un borgo così minuscolo che chiamarlo “borgo” è pura misericordia, in quel di Reggio Emilia, ma in alto abbastanza perché il clima sia quanto meno accettabile. Sarò con alcuni amici, priva di Internet, con un paio di libri che non avrò tempo di leggere e il telefono che non funziona perché la linea va e viene. Le vacanze perfette. A parte il fatto che non avrò tempo per leggere, ma se consideriamo che la lettura sarà interrotta per stare più insieme ai miei amici, beh, è una buona cosa, credo.
Dicevo che tra un paio d'ore dovrò uscire, e anche con una certa fretta. Eppure sono qui che cerco di sbrigarmi a scrivere qualcosa. Su cosa? Su Jayber Crow, esordio letterario di Wendell Berry, di cui ho già adorato Hannah Coulter, entrambi editi da Lindau in un'ottima traduzione di Vincenzo Perna.
Dunque, Jayber Crow. Parlare di Jayber Crow – e, mi pare di capire, dei libri di Wendell Berry – vuol dire parlare anche di Port William, paesino agricolo del Kentucky in cui le storie dei suoi personaggi prendono vita.
Il tempo mi è tiranno, ma la voglia di parlare di questo libro mi costringe biecamente a strizzare poche parole in questa pagina colpevolmente virtuale. Perdonate gli eventuali errori grammaticali, e le immancabili sviste ortografiche.
Jayber Crow nasce durante la Grande Guerra a Port William. I suoi genitori soccombono non alla guerra, ma al terribile inverno del '17-'18, e Jayber è poco più che un infante quando viene accolto da zia Cordy e zio Othy, già in là con gli anni, che con lui non hanno poi tanto sangue in comune, ma si offrono comunque di prendersene cura. Con loro vive qualche anno felice, vicino al fiume, destreggiandosi tra il negozio tenuto dalla zia a beneficio dei battellieri e l'aiuto allo zio negli orti. È felice, ma non dura poi molto. Dopo pochi anni lieti, Jayber rimane orfano una seconda volta, e viene accolto da un istituto religioso, dove studia e... beh, cresce. Un po'. Finché non raggiunge l'età per studiare altrove.
E così via. Jayber Crow racconta di sé in prima persona, in un presente che ha luogo nel 1986. Racconta da anziano, dalla capanna sul fiume che ha addomesticato, un rifugio solitario in cui si sente pienamente a casa. Racconta del suo breve periodo in città, e poi, e soprattutto, del suo ritorno a Port William. L'affetto per un posto e per coloro che lo ospitano, l'idea di collettività che ho riscoperto positiva leggendone nei libri di Wendell Berry. Jayber è il barbiere del paese, e grazie al palco della sua poltrona riesce a conoscerla come pochi altri. È stato bello rivedere Burley Coulter, e conoscerlo da un'altra prospettiva, quella di un amico piuttosto che quella di una parente, com'è stato con Hannah. Le generazioni che si susseguono, le storie che diventano voci e poi leggende, e mentre le leggi già sai che verranno dimenticate. C'è quel senso di... come dire, si sente che quella stabilità immutabile e di lunga memoria si avvicina alla fine. Port William e il suo modo di vivere sono giganti millenari che stanno per soccombere. C'è un po' di amarezza, dopotutto.
Jayber è un bel personaggio, e tuttavia non sono certa di averlo capito fino in fondo. Non perché sia raccontato male, tutt'altro. È schivo, riservato, sfuggente. Rispettoso, silenzioso. Onesto, certo. Eppure si ritrae dagli occhi del lettore come da quelli dei suoi concittadini, anche se sono suoi amici. Il suo approccio all'amore è qualcosa di meraviglioso e tragico insieme. Una splendida ode al sacrificio.
Quindi, sì. Jayber Crow. Wendell Berry. È un po' amore.