Piccoli scorci di libri #46

Internet Apocalypse di Wayne Gladstone – traduzione di Veronica La Peccerella – Multiplayer.it Edizioni, 2014

Ho finito di leggerlo una mezzora fa, e ancora mi viene da inclinare la testa da un lato e pormi mille domande, cui giustamente mi è impossibile dare risposta senza l'inserimento di ulteriori dati. Sicuramente è un libro ganzo, politicamente scorretto, divertente, assurdo. L'ambientazione, la New York senza Internet, è fantastica. Gruppi di zombie affamati di contenuti, le riunioni di 4chan, qualche pillola di Anonymous, un oracolo che si fa chiamare Jeeves. Le chicche sono tante, e le ho gradite un sacco. La storia è quella di un terzetto che va alla ricerca di Internet dopo la sua improvvisa e inspiegabile scomparsa. C'è Wayne Gladstone che lo racconta i prima persona, in una specie di diario, c'è l'amico blogger eminentemente stupido Tobey, c'è una ventiquattrenne australiana che la scomparsa della rete ha reso disoccupata, visto che il suo lavoro consisteva nel farsi la doccia in cam. Un viaggio a tappe, per le varie stazioni dell'Internet, che in qualche modo sono riuscite a riorganizzarsi "irl". E questo è immensamente ganzo.
Eppure non so decidermi sul finale. Non capisco se sia ganzo o meno, se sia del tutto “giusto”. Da un lato l'ho adorato, dall'altro non lo so. È molto classico, in un certo senso.
Una cosa che non ho gradito è il fatto che Gladstone abbia voluto mettere troppo di se stesso in questo libro. Tralasciando l'evidente fattore autobiografico, ecco. Personalmente trovo fastidioso quando quella che dovrebbe essere una storia diventa un veicolo attraverso il quale l'autore mi lancia addosso quello che pensa, pure quando sono sostanzialmente d'accordo con lui. Ci sono quel tot di dialoghi e di situazioni cuciti addosso a certe affermazioni, che sembrano create all'unico scopo di rendere plausibile il loro manifestarsi, ecco.
Ma rimane ganzo, veramente ganzo. Nonostante l'ingenuità della strada intrapresa dalla trama e dai personaggi, nonostante le battute forzate. Anzi, forse anche grazie alle battute forzate. Di certo non è il tipo di libro che richiede una puntigliosa accuratezza situazionale e caratteriale, anche se ogni tanto avrei gradito un po' più di coerenza.

Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald – traduzione di Tommaso Pincio – minimu fax, 2011

La seconda volta è stata quella buona. Avevo già provato a leggere questo libro, ma in un'edizione pessima che ho dovuto chiudere intorno a pagina 20 per l'orridume della traduzione. Rileggendola in questa versione, mi è sembrato di leggere una storia totalmente diversa. Sul serio.
E dunque, che dire che già non si sappia? È la società americana degli anni '20, prevalentemente alta, spogliata dagli occhi del narratore, Nick Caraway, la cui casa si pone a metà tra quella di Jay Gatsby e quella di Tom e Daisy Buchanan. Gli occhi di Nick che osservano Gatsby con un misto di curiosità e condiscendenza, e guardano con pena il legame dei coniugi Buchanan. Daisy è una vecchia amica di Nick, una ragazza stupenda e frizzante, adorabile in ogni contesto, di cui Gatsby si è invaghito da giovane, e di cui si è creato un idolo col passare degli anni.
E già dopo queste poche righe mi trovo praticamente senza parole. Cosa si può dire, sul serio, di Il Grande Gatsby? Di un eroe romantico arrivato in ritardo nella letteratura come nella sua storia? Della società dell'epoca, disossata da Fitzgerald, che pure ne faceva parte?
È uno di quei libri che vanno letti, senza se e senza ma. E sono davvero contenta di essere riuscita a farlo senza sapere quasi nulla della trama. Solo il nome di Daisy, e la cieca adorazione di Gatsby.