Scribacchiolando #8 - Write drunk, edit sober.

Scribacchio, come si può facilmente intuire dalla pagina “racconti” su in alto, o dai post “Scribacchiolando” che pubblico a cadenza incalcolabilmente casuale. Ho scoperto, negli ultimi anni, che mi imbarazza pure ammetterlo, perché il prototipo italiano del wanna-be-scrittore non è proprio l'esemplare più ammirevole di questo universo mondo. C'è quello che riscrive la propria vita con infinite ripicche, quello che spedisce il proprio alter ego a sguazzare in un mare di proposte sessuali, quello che “la grammatica inibisce la sua creatività”. E per quanto io sia consapevole che non sono io a poter decidere di non essere parte di quel magma di orrendume letterario, posso dire con severa decisione che, ehi, Io progetto. E cancello, e correggo, e riscrivo, e riprogetto e poi faccio implodere tutto e ricomincio daccapo. Pure troppo.
Il tema centrale di questo “Scribacchiolando” è la riscrittura maniacale. Più o meno.
Ricordo giornate intere passate davanti al computer a maltrattare diottrie e a tempestare tastiere. Potevo arrivare pure a trenta pagine al giorno, non scherzo. Alle medie, alle superiori. Avevo un momento libero e zac, davanti al computer fino al momento in cui mia sorella non mi avrebbe cacciata per fare le robe sue.
Cos'è cambiato da allora? Intanto mi sono fermata per anni. Il foglio bianco non è diventato mio nemico, ma il nostro rapporto si è comunque trasformato. Da un'amicizia stretta, calorosa, intima fino alla semplice conoscenza. “Buongiorno, Foglio Bianco, tutto bene?” “Tutto a posto, tu?” “Non c'è male.” “Bene.” “Bene.” E ognuno via per la sua strada, con un'occhiata imbarazzata piena di sollievo.
E poi beh, nell'ultimo anno ho cercato di rimettermi a scrivere. Senza sforzarmi troppo, senza obbligarmi. E un paio di giorni fa è successo che mi sono messa a scribacchiare senza avere poi molto in testa. Due personaggi presi da un'altra storia – non ne sentirà la mancanza – e una stanza, poi una casa, poi... e poi la storia. E ho scribacchiato abbastanza, devo dire. Abbastanza da sentirmi spalle e collo doloranti di soddisfazione.
Uno dei motivi è che, contrariamente a quanto ho fatto negli ultimi anni, stavolta non ho corretto. Ho lasciato le frasi imperfette, incomplete, nella loro forma-significato embrionale, con la sintassi corretta ma brutte a leggersi. Non mi sono fermata per ricontrollare, per limarle e smussarle e renderle perfette. No, che aspettino il loro tempo. Che aspettino il giorno in cui avrò finito di scrivere la storia, che aspettino la pagina, chessò, duecento? Duecentocinquanta?, e la successiva parola “fine”.
Hemingway ha detto “Write drunk, edit sober”. Non penso proprio che intendesse una scrittura inondata d'alcol, piuttosto una scrittura fluida e mondata dalla propria coscienza grammaticale. Che si mettano a tacere le rimostranze sintattiche, che taccia il fantasma della correzione. Resti nel fodero la spada che combatte il refuso.
Meglio portare avanti la trama.
Almeno credo. Almeno per adesso. Almeno per me.
Voi avete consigli da portare in dono? Se scrivete, quando correggete?