Funny Girl di Nick Hornby

Io e Hornby ci siamo conosciuti un sacco di tempo fa. Andavo ancora alle superiori, quando circolava per casa Un ragazzo, quel libro da cui hanno tratto un film che non è malaccio, ma in cui i cambiamenti mi hanno vagamente inferocita. Cioè, come si fa a strappare via i Nirvana per appiccicarci sopra l'hip-hop più becero? Dio, che tristezza.
E comunque, in tempi relativamente più recenti non ho mancato di leggere altro di Hornby. Alta fedeltà, Come diventare buoni, Non buttiamoci giù. È uno di quegli autori da cui difficilmente mi aspetto una delusione, e che non riesco a capire perché non raccolgano più consensi.
Dunque, Funny Girl, tradotto da Silvia Piraccini e pubblicato da Guanda un paio di mesi fa. Ha iniziato a piacermi da subito, fin dalle prime pagine. Per il tono leggero con cui veniva raccontata la storia, per la protagonista che, lo ammetto, non sono riuscita a inquadrare del tutto, ma di cui comunque mi è piaciuto leggere le vicissitudini. Per l'ambientazione londinese, per il contesto in cui si destreggiano licenziosità e timore per lo scandalo. Gli anni Sessanta a Londra, il periodo della transizione.
Barbara ha appena rifiutato il ruolo di Miss della sua città perché non vuole rimanervi incatenata. Ha sempre sognato di fuggire a Londra ed entrare nel mondo dello spettacolo per fare ridere le persone, anche se somiglia più a una pin-up che a una comica. E una volta giunta a Londra, dopo qualche mese da commessa nel reparto calzature di un grande magazzino, viene scoperta da un agente ben deciso a ricoprirla d'oro.
Ora, da qui in poi la macchina della trama è più che in moto. Barbara cambia nome senza riuscirci del tutto. Fa conoscenza di due sceneggiatori, Bill Gardiner e Tony Holmes, omosessuali in incognito, che dapprima, tra ironie e frecciatine, un po' si confondono l'un l'altro, ma che poi diventano i personaggi forse più caratterizzati del libro. E poi conosce Dennis, produttore della BBC, col suo matrimonio incrinato, oggetto degli scherzi di Tony e Bill. E poi conosce Clive Richardson, attore belloccio e vacuo. Si ritrovano al centro di una produzione importante che li catapulta nel mondo della BBC e li lancia nei televisori di mezza Inghilterra.
E non è che posso stare a dire tanto, temo di aver detto fin troppo. Funny Girl inizia come la storia di Barbara, e poi diventa la storia di tutti coloro che le si sono affiancati durante la serie televisiva di cui è stata protagonista.
Dicevo, io Hornby lo leggo da tanto tempo. Abbastanza da poter dire che questo libro è diverso dagli altri. Qui Hornby ha un tono più calmo, leggero, meno cinico e ingrugnato. Più tè che birra, ecco. Mi ha ricordato molto Coe, soprattutto per una coincidenza che ho trovato piuttosto bislacca e che dopotutto, pur non disprezzandola, proprio non ho saputo farmi andare giù di questo libro.
Tutte le storie hanno una fine. Tutte quelle che leggiamo ci lasciano coi personaggi a un certo punto della loro vita, più soddisfatti o più infelici rispetto all'inizio del racconto, sicuramente cambiati. Di solito la fine sopraggiunge alla conclusione di un ciclo, di un avvenimento importante e performativo, dopo poche ore o pochi giorni o perfino decenni. Quello che mi ha lasciata interdetta di Funny Girl, e lo stesso posso dire di Expo 58 di Coe, è che a vicenda perfettamente conclusa, gli autori hanno deciso di aggiungere un capitolo finale in cui vengono riproposti i personaggi nel momento del declino, alla fine della loro vita. Stanchi, anziani, provati. Non è una scelta che condanno o che “rovina la lettura”, questo no. Però non riesco a non storcere il naso. Tutti – o almeno, i più fortunati di noi – finiscono in questo modo, fragili e piegati dai decenni, con gli occhi acquosi e una curiosa voglia di semolino. È l'umana sorte e poco ci possiamo fare. Però perché ricordarcelo così, non lasciare che l'immagine ultima del romanzo sia quella della Barbara degli anni '60, alla fine di un ciclo perfettamente concluso? Non è un difetto, è una cosa che proprio non ho capito. Forse sono io, però mi ha fatto effetto “Memento Mori”.
Ma nonostante questa scelta che un po' mi stride, il libro rimane bellissimo, frivolo e divertente, con picchi di intensità che raramente riguardano Barbara. E lo consiglio un sacco, un sacco davvero.
(Forse dovrei accennare al fatto che i personaggi, così come la serie di cui parla, sono realmente esistiti. Ma non sapendone abbastanza, e non trovando l'aspetto poi così rilevante ai fini della lettura, mi limito a questa postilla.)