On writing di Stephen King

A ben vedere non è che io abbia letto moltissimo di Stephen King, anzi, giusto una manciata di libri. Certo, mi sono piaciuti un sacco, ma sempre una manciata restano, e trattandosi di un autore sorprendentemente prolifico, si tratta della proverbiale goccia nel mare. Ha senso, dunque, leggere On writing prima ancora di leggere It, Shining, la serie de La torre nera e gli altri capolavori del Re?
Forse no. Però lo cercavo e l'ho trovato. Conseguentemente l'ho letto e, com'è giusto che sia...
Sì, On writing di Stephen King, tradotto (meh) da Tullio Dobner e edito da Sperling e Kupfer nel lontano 2001. E fuori catalogo.Saggia scelta editoriale, visto che c'è mezzo mondo che lo cerca. Quando l'ho chiesto in prestito a un'amica ho visto qualcosa spezzarsi nei suoi occhi, mentre mi pregava di averne cura. Da brava Lettrice ho avuto pietà e ho ritratto la richiesta, prendendolo in biblioteca. E... beh, ora ne voglio una copia mia. Da risfogliare ogni tanto. Sento che ne avrò bisogno.
On writing non è un manuale di scrittura, anche se è pieno di consigli utili. È un po' autobiografia, un po' libro sui libri in generale. In sostanza King ha risposto alla domanda che nessuno gli ha mai posto, perché sono domande che si fanno a scrittori di letteratura seria, d'alto calibro, passabili di Nobel. E non sono certa che questa parte sia stata tradotta al meglio, perché King parla di domande 'sul linguaggio'. Ma via, presunzione di innocenza e andiamo avanti.
King parla della sua infanzia, della sua famiglia, di quanto amasse leggere. Del suo amore per i film dell'orrore di serie Z, del chiodo sulla parete della sua stanza al quale appendeva le lettere di rifiuto che gli arrivavano dalle riviste cui sottoponeva i suoi racconti. Parla dei suoi studi, dei suoi tentativi, di quando ha vissuto con la moglie e tre figli piccoli in una roulotte, la stessa in cui ha scritto Carrie, il grande best-seller, il suo primo romanzo. Parla anche di come arrivano le idee, o meglio, di come le cose si mescolano nelle teste degli scrittori per diventare situazioni dalle quali si sviluppa una storia. Parla della sua Musa, che è un tizio burbero e silenzioso. Della sua avversione – a mio dire eccessiva – per gli avverbi, della sua preferenza per un'esposizione cronologicamente lineare, opposta all'inizio 'in media res' che oggigiorno usa tanto, e che personalmente preferisco.
King è preparato e onesto. Ammette la fatica, ammette il bisogno di un pubblico, di un riscontro. Ha trasformato la moglie Tabitha nel costrutto semiotico del Lettore Ideale. Riporta esempi, correzioni, ancora esempi.
E dice che l'unico modo per diventare scrittori è scrivere, leggere e allenarsi. E che non è un lavoro per tutti. Lo definisce un lavoro, un lavoro amato, ma sempre un lavoro. Non tenta di scrollarsi di dosso la nomea di mestierante che certi critici gli hanno affibbiato, preferisce vestirla come una giacca scomoda. Similitudine che gli farebbe storcere il naso, stando a quanto ho letto.
Chi non conosce King farebbe bene a leggersi almeno Carrie. E chi già lo conosce, non può non leggere anche On writing. Soprattutto chi è rigonfio di velleità letterarie. Davvero, è utile forte. Ma buona fortuna con la ricerca...