Non
so perché mi ci è voluto così tanto per scrivere questo post.
Probabilmente a farmi decidere è stato il fatto che ho appena
iniziato a leggere La casa sfitta, quindi mi sono detta che
era il caso di parlare di La storia di una bottega di Amy
Levy, pubblicato in Italia dalla Jo March nel 2013, in un'ottima traduzione di Lorenza Ricci e Valeria Mastroianni. Sarà passato più di un mese da quando ho finito di leggerlo, eppure ancora tentenno all'idea di recensirlo, anche se è chiaro che il momento è ormai giunto. Se ve lo state chiedendo – ma dubito – quello che lega
La casa sfitta – romanzo collettivo comparso sulla rivista
di Dickens e al quale hanno partecipato pure Elizabeth
Gaskell e Wilkie Collins – e La storia di una bottega
è giusto la casa editrice. La Jo March. Che se passate di qui
abbastanza spesso avrete una vaga infarinatura di quanto la adori. Ma
via, cerchiamo di soprassedere e non cadere nel fangirlismo almeno stavolta.
La
storia di una bottega è il primo romanzo della Levy, scritto nel
1888. Amy è nata a Londra, seconda di sette figli in una
piccola famiglia ebrea. In questo libro le sue idee pre-femministe
emergono chiaramente dalla trama, dalle occhiate lanciate alla
leziosa sorella maggiore, dalla forza e dalla caparbietà delle
altre, che spingono e sudano per non lasciarsi separare né si
reinventano come fanciulle in pericolo dopo la morte dei genitori.
Ecco,
è così che inizia la storia, con la morte dei genitori. Gertrude,
Lucy, Phyllis e Fanny sono rimaste orfane, i loro beni sono messi
all'asta insieme alla loro casa e si stanno preparando per il futuro.
Per costruirselo insieme, invece di andare a pesare sulle spalle dei
parenti che pure sarebbero più che lieti di accoglierle. Si
trasferiscono in un minuscolo appartamento in Baker Street – la
stessa via di Sherlock Holmes, farei notare – con annessa una
piccola bottega al piano inferiore, dove apriranno uno studio
fotografico. E così via, tra incontri, difficoltà e scelte.
Le
sorelle Lorimer sono diverse tra loro, ad accomunarle c'è l'affetto
che nutrono le une per le altre. Fanny, la maggiore, è leziosa,
sciocca, si abbandona ai manierismi sdolcinati della sua giovinezza
nonostante abbia già superato i 30 anni. È debole, incerta,
instabile. Poi c'è Gertrude, la forza che traina le altre,
l'instancabile capo-famiglia. Inflessibile, dura, a tratti quasi
ingrigita dal peso sulle sue spalle, il benessere delle sorelle. E
Lucy, intelligente, arguta, gentile. Perfetta, direi. E alla fine
Phyllis, la più giovane, la più dolce e la più inquietante.
Cagionevole di salute ma dall'animo appuntito, il corpo cedevole e il
cuore di ferro. Mi piace Phyllis, è un personaggio riuscitissimo,
adoro il contrasto tra l'affetto che riversa sulle sorelle e la
gelida saggezza che riserva al resto del mondo. Come se avesse già
deciso cos'è importante e cosa non lo è.
Che
altro dire? Inutile dilungarsi, direi che ho già svelato fin troppo.
È la storia delle sorelle Lorimer e della loro bottega. Punto e
basta. È scritta e tradotta benissimo e... e beh, non aggiungo nulla
che sennò spoilero. Ed è superfluo dire - ma lo dico uguale - che l'ho adorato. Spero ardentemente di leggere anche l'altro romanzo
della stessa autrice. La butto lì, dovessero mai leggere le ragazze
della Jo March.