La versione di Barney - Mordecai Richler


Il più grande complimento che si fossa fare ad un libro è la perdita dello scorrere del tempo. E lo dico perché La versione di Barney di Mordecai Richler, ottimamente tradotto da Matteo Codignola ed edito da Gli Adelphi nel 2005, mi ha fatto perdere la prima lezione della mattina. Mi ero alzata presto, intorno alle 7.30, colazione, doccia e, visto che mi avanzava ancora un po' di tempo, mi sono portata il libro in cucina, sul tavolo, proprio sotto la luce attenta del lampadario. E ho mancato la lezione. Ma non di poco, qualcosa come venti-trenta minuti. E allora che fare? Scriverne.
Inizialmente questo libro mi ha fatto storcere parecchio le labbra. La storia di Barney, raccontata da Barney e puntigliosamente corretta dal primogenito Mike. Barney che racconta di sé da vecchio, Barney che rievoca la propria gioventù a Parigi, coi suoi amici artisti alcolizzati. Mi dava l'impressione che Richler guardasse con affetto e simpatia ad un personaggio che a me di simpatia non ne ispirava affatto. Chiacchierando al telefono con mia sorella, paragonavo quest'opera a Il teatro di Sabbath di Philip Roth o a Una banda di idioti di John Kennedy Toole (che Richler cita, peccato che il traduttore non se ne sia accorto). Queste opere hanno come protagonisti due esemplari d'umanità veramente meschini, egoisti, malevoli, graziati o maledetti da un cervello acuto e iperattivo. Nel primo caso, quello di Roth, la ributtante figura di Sabbath risulta patetica, disperata, crudele oltre la semplice malignità. Non si può volere bene a Sabbath, non lo si può guardare con simpatia o con comprensione. Certo, vorresti che si calmasse, che mettesse la testa a posto e smettesse di autodistruggersi, ma per pura pietà e non per empatia. Diversamente, in Una banda di idioti, di cui ho parlato qui, Toole ci racconta di Ignatius Reilly, un omone ugualmente egoista, maligno e socialmente inetto, ma lo fa partendo da una prospettiva totalmente opposta. Laddove inorridiamo per Sabbath, ridiamo di Ignatius. Toole vuole che sbeffeggiamo Ignatius, che lo irridiamo e additiamo. La sua presunzione lo condanna alla derisione.
All'inizio di La versione di Barney, invece, l'autore mi dava l'idea di guardare al proprio personaggio e soprattutto alle sue scorribande parigine, con indulgenza, con simpatia. Lo stesso vale per le sue piccole cattiverie da anziano vigliacco e rancoroso. E a me irritava questa prospettiva, non la sentivo affatto mia. Mi sarei volentieri lasciata scappare un ceffone sulla nuca del giovane Barney, al grido di 'Ma va' a lavorare, disgraziato!'. Che ci posso fare, io i giovani artisti incompresi non li sopporto.
Ma, man mano che scorre la lettura, pare che la superbia di Barney freni e si ridimensioni, come se ricordando delle sue sconfitte, il suo ego cominciasse a rimpicciolire. Svanisce la baldanza, rimangono i ricordi e il dolore che portano con sé. Il libro è diviso in tre parti, uno per ogni moglie di Barney. La prima, Clara, dal 1950 al 1952, copre quasi la metà del libro. La seconda signora Panofsky, dal 1958 al 1960. E infine Miriam, dal 1960 in poi.
Ma veniamo – e sarebbe anche l'ora – alla trama. Barney comincia a scrivere per dare una propria versione dei fatti. Un suo vecchio amico ed eterno rivale, il celebre e pluri-premiato scrittore Terry McIver, ha parlato spesso di lui, in termini niente affatto lusinghieri, nelle proprie memorie, accusandolo di aver assassinato la prima moglie, Clara e in seguito di aver ucciso il migliore amico Boogie, riuscendo a evitare la condanna soltanto per insufficienza di prove. Ed è per questo che Barney si mette a scrivere e a ricordare, per difendersi e spiegarsi. Barney non è uno scrittore, non uno 'vero'. È un ottimo lettore e si sente fatalmente attratto dal mondo disordinato degli artisti, ma sa di non esserlo lui stesso. Ha creato e continua a dirigere una casa di produzione di serial televisivi scadenti e orride pubblicità. È ricco, ma non glorioso. Risplende d'orgoglio quando parla dei tre figli, Mike, Saul e Kate ed è commovente quando rievoca i momenti felici passati in famiglia, coi ragazzi e l'adorata Miriam.
Gli avvenimenti non seguono un filo cronologico preciso. Ci si sposta da un decennio all'altro, proprio come se Barney scrivesse e divagasse seguendo il corso dei propri pensieri. Lo stile è colloquiale, a tratti volgare, senza fronzoli né abbellimenti estetici. Ed è solo alla fine dell'ultima pagina che ci viene data una risposta all'enigma che tormenta Barney per tutto il libro.
Quindi, che dire? Certo che lo consiglio. L'amico che me l'ha regalato gli ha dato una stellina su Anobii – Sacrilegio! Eresia! Peste! - ma a me è piaciuto davvero tanto.
E con questo vi saluto, che ieri ho dimenticato di comprare il caffè e sono ancora mezza rimbambita. A me della caffeina.